SAN GIOVANNI CRISOSTOMO
MAESTRO DI LITURGIA E PASTORALE PER LA CHIESA ORTODOSSA
an Giovanni Crisostomo, di
cui quest'anno commemoriamo i 1600 anni dalla morte, fu sempre riconosciuto
sia dalla Chiesa d'Oriente che dalla Chiesa d'Occidente come grande maestro
e modello di fede. Nel mondo bizantino, però, e oggi ancora nella Chiesa
greca, il Crisostomo non è solo uno dei tanti grandi Padri, ma è
il Padre per eccellenza, il più autorevole, il più citato, il
più amato: certo, noi ortodossi, pur riconoscendo senz'altro come Padri
e maestri anche i latini sant'Ambrogio, sant'Agostino e altri, tuttavia parliamo
di tre «grandi gerarchi e maestri universali»: san Basilio, san
Gregorio di Nazianzo e san Giovanni Crisostomo; ma è quest'ultimo che,
sul piano della pastorale, detiene probabilmente il primato. Tra i Padri orientali
egli è quello che più si è occupato di temi sociali e pastorali,
e in questo senso è forse il più attuale per noi, colui che ancora
oggi ha molto da dirci e da insegnarci.
L'immenso prestigio di cui gode il Crisostomo nel mondo greco, e in generale
nell'Ortodossia, è dovuto anche ad altri fattori: egli fu patriarca di
Costantinopoli, la capitale politica e religiosa del mondo bizantino; e al suo
nome è stata indissolubilmente legata la Liturgia di San Giovanni Crisostomo,
che da circa 1500 anni, e fino ancora ad oggi, è il più usato
formulario della messa di rito bizantino. Ma, come abbiamo detto, un aspetto
essenziale della fama sempre goduta da questo Padre e della sua importanza anche
per il mondo di oggi, è la straordinaria attualità del suo messaggio.
Egli infatti visse e operò in un contesto sociale per molti aspetti simile
a quello odierno: le grandi città del quarto secolo erano metropoli immense,
affollatissime, multietniche e multiculturali, tutte imbevute di quella patina
di "globalizzazione" ellenistico-romana che da secoli andava esportando
in tutto l'Occidente i valori della secolarizzazione, del libertinismo, del
lusso e del consumismo. E il Crisostomo fu rispettivamente prete-predicatore
e arcivescovo proprio in due di queste grandi metropoli: Antiochia e Costantinopoli.
Diversamente quindi da molti altri Padri, che vissero in epoche in cui la secolarizzazione
ellenistica aveva ceduto il posto a regimi sociali più religiosi e morali
(a partire dal sesto secolo circa), o che comunque vissero in contesti monastici
e isolati dalla società mondana, il Crisostomo, in quanto prete e poi
vescovo, si trovò a dover affrontare in prima persona tutti i problemi
della società: dalle contese giudiziarie allo sfruttamento dei poveri,
dai rapporti con i potenti della politica ai problemi matrimoniali, e a mille
altre questioni. Leggendo le sue numerosissime opere, in effetti, non solo ci
si rende conto della varietà e dell'ampiezza dei temi sociali e morali
di cui egli si occupò, ma dalle sue stesse parole e descrizioni si capisce
quanto il mondo di allora fosse per molti aspetti simile a quello odierno, più
di quel che noi generalmente crediamo: le sue omelie parlano della mania della
gente di allora per le spese inutili, i beni di lusso e gli infiniti capricci
del consumismo, parlano dell'abbigliamento provocante e indecente delle donne,
dei continui problemi relazionali tra i coniugi e del dilagare dei divorzi,
parlano dell'indifferenza dei benestanti nei confronti dei poveri e degli emarginati,
parlano della superficialità e incoerenza della vita religiosa della
maggior parte dei cristiani.
Vale dunque la pena, anche per noi pastori della Chiesa del ventunesimo secolo,
ascoltare l'insegnamento spirituale e pastorale, tutt'altro che anacronistico,
di questo grande Padre. A questo punto però dobbiamo fare una precisazione
importante: parlare di un insegnamento o di una pastorale di san Giovanni Crisostomo
non è propriamente corretto ed egli stesso probabilmente non avrebbe
apprezzato una tale dicitura: come tutti i Padri e i santi, egli non volle essere
considerato un "autore", un maestro, ma solo un discepolo di Cristo
e degli apostoli, un trasmettitore e interprete del loro insegnamento. Il suo
scopo era solamente quello di trasmettere e spiegare ai contemporanei e ai posteri
l'unico insegnamento divino, il «depositum» della fede, come lo
chiama san Paolo (1Tm 6,20). La nostra tendenza, di cristiani ma anche di sacerdoti
e vescovi, è spesso quella di cercare di risolvere le questioni religiose,
morali e pastorali alla luce di ciò che ci sembra meglio, più
adatto, più ragionevole. Questo metodo però rischia di farci allontanare
dalla roccia sicura dell'insegnamento di Cristo e degli apostoli. La posizione
dei Padri su questo punto è unanime e chiara: per ogni questione - scriveva
san Cipriano - «noi dobbiamo risalire alla “fonte” del Signore,
cioè alla tradizione dei Vangeli e degli apostoli» . E sant'Ippolito
affermava: «Le eresie si sono moltiplicate perché i capi non vogliono
istruirsi all’insegnamento apostolico, ma fanno ciò che vogliono,
seguendo i loro gusti» . E Tertulliano è ancora più chiaro:
mentre tra gli eretici - dice - «ciascuno modella a suo piacimento il
patrimonio dottrinale ricevuto» , «per noi [ortodossi] non è
lecito introdurre nulla a nostro arbitrio» , ma dobbiamo solo attenerci
all'insegnamento degli apostoli, i quali per altro «neppure essi si scelsero
alcuna dottrina per introdurla a loro piacimento, ma la dottrina ricevuta da
Cristo la trasmisero fedelmente ai pagani» .
Queste testimonianze dei Padri del secondo secolo indicano chiaramente quale
fosse il "metodo" di ricerca della verità nella Chiesa antica.
Verso il 130 d.C. il vescovo Papia scriveva: «Se incontravo qualcuno che
diceva di essere stato seguace degli apostoli, io subito lo interrogavo su che
cosa fossero soliti insegnare Andrea, Pietro, Filippo […] e gli altri
discepoli del Signore» : in questo modo infatti si arrivava ad attingere
alla Fonte unica: Cristo, di cui gli apostoli trasmisero l'insegnamento. Come
ripete spesso anche san Giovanni Crisostomo commentando le parole dell'apostolo
Paolo: «Era Cristo a parlare per bocca di Paolo» . Paolo stesso
infatti, sull'esempio degli altri apostoli, aveva detto: «Vi ho trasmesso
quello che anch’io ho ricevuto» (1Cor 15,3).
L'insegnamento degli apostoli, a sua volta, fu custodito e trasmesso ai posteri,
dai loro successori: i vescovi, soprattutto quelli delle chiese più antiche,
le cosiddette Chiese apostoliche. Si forma in tal modo il concetto di Tradizione,
che altro non è che il «deposito» apostolico, un deposito
che deve costituire l'àncora e il punto di riferimento per ogni generazione
successiva.
Esattamente questo fu il metodo seguito dai grandi Concili ecumenici. Ad esempio,
durante il Concilio di Efeso del 431, i vescovi lì riuniti – scrive
san Vincenzo di Lérins - «non intesero proporre ai posteri null’altro
da credere se non l’antica sacra dottrina insegnata dai Santi Padri unanimemente
e conformemente a Cristo» . E più di tre secoli dopo il Concilio
ecumenico II di Nicea ribadirà lo stesso concetto: «Dopo ricerche
e discussioni approfondite, con l’unico scopo di seguire la verità,
noi né togliamo né aggiungiamo alcunché, ma conserviamo
intatto il patrimonio dottrinale della Chiesa cattolica nel solco dei sei santi
concili ecumenici», «custodendo gelosamente intatte tutte le tradizioni
della Chiesa, sia scritte che orali» .
Non ci dilunghiamo in ulteriori citazioni: basti dire che questo metodo è
ancora oggi quello seguito dalla Chiesa ortodossa e, almeno fino al medioevo,
era seguito anche dalla Chiesa latina. Illuminanti e significative sono ad esempio
le parole del papa Gregorio VII († 1085), per altro noto come grande enunciatore
della plenitudo potestatis del Papa di Roma: «Noi - dice -, che custodiamo
e difendiamo ciò che stabilirono i santi Padri, ogni volta che sentenziammo
o sentenziamo qualcosa a proposito dei problemi delle Chiese, non proclamiamo
cose nuove o venute da noi, bensì semplicemente seguiamo ed applichiamo
ciò che essi hanno insegnato illuminati dallo Spirito Santo» .
Ma, come notava con tristezza, pochi decenni prima il papa Leone VII, «ognuno
ritiene ormai che debba essere tenuto per vero non ciò che è stato
tramandato ma ciò che a ciascuno sembra meglio» .
San Giovanni Crisostomo, in sintonia con questo metodo, non vuole mai, nei suoi
scritti, creare o inventare, ma solo trasmettere, spiegare e applicare. Non
è casuale, del resto, che la maggior parte delle sue opere siano commenti
alla Sacra Scrittura, cioè alla prima e principale fonte della verità.
Ma anche quando non scrive un'opera esegetica, egli sovrabbonda comunque in
citazioni e riferimenti alla Bibbia, all'àncora sicura a cui vuole sempre
rimanere rigorosamente fedele. Se ognuno comincia a riferirsi alle autorità
che preferisce o a inventare soluzioni personali e "ragionevoli" secondo
la ragione umana, allora - scrive - «non si sa più dove fermarsi
né dove dirigersi [...]: colui che si allontana dal [depositum] della
Fede è sempre instabile, è come chi nuota vagando or di qua or
di là, finché non resta sommerso dalle molte acque» : «smettiamola
dunque di discutere! Noi ci chiamiamo “fedeli” proprio perché
senza dubitare e senza la minima esitazione crediamo a quanto ci è stato
insegnato. Se questi insegnamenti fossero umani, allora sì che si dovrebbe
vagliarli attentamente; ma poiché essi provengono da Dio, bisogna soltanto
accettarli rispettosamente e credere ad essi con cuore sincero. Se non abbiamo
fiducia in essi, vuol dire che non siamo convinti neppure dell’esistenza
di Dio» . Parole che fanno riflettere. E dovrebbero far riflettere soprattutto
noi preti e vescovi del ventunesimo secolo, spesso inclini a un malinteso concetto
di "creatività" nell'ambito della Chiesa. Al contempo esse
fanno anche capire quella tendenza tipica della Chiesa ortodossa al "conservatorismo"
e al "tradizionalismo", un atteggiamento che spesso viene frainteso
dai non ortodossi e viene accusato di incapacità di adattamento ai tempi
che cambiano.
Ma, come diceva san Cirillo di Alessandria: «Si può forse pensare
che Cristo, nel dettare la Legge, abbia omesso qualcosa di necessario? Forse
che gli uomini di Chiesa possono inventare qualcosa di meglio? Non è
forse sciocco e offensivo ritenere insufficiente ciò che Cristo ha stabilito?»
. Perciò «non aderire alle vestigia dei Padri – diceva san
Basilio – e non ritenere più giusta della propria opinione la loro
parola, è cosa degna di riprensione in quanto piena di arroganza»
.
Da quanto detto finora si capisce anche un altro aspetto fondamentale della
mentalità della Chiesa ortodossa: diversamente dalla tendenza che si
è affermata, soprattutto negli ultimi secoli, nella Chiesa cattolica,
l'Ortodossia tende a minimizzare il concetto di "carisma magisteriale"
del clero. Essa certamente riconosce la grandezza della grazia e del ruolo del
sacerdote, come vedremo fra poco, e riconsoce anche la sua missione magisteriale,
cioè il suo dovere di insegnare la dottrina, ma nega che il sacerdote,
come pure il vescovo, abbia ricevuto da Dio una specifica grazia che ne faccia
un maestro autentico e sostanzialmente infallibile della fede. Per la Chiesa
ortodossa la verità si trova nel depositum della Tradizione apostolica
e patristica: chiunque si attiene fedelmente a questo depositum è un
maestro autentico e infallibile della fede, che sia patriarca, vescovo, prete,
monaco o laico, uomo o donna. Si racconta che durante il Concilio di Calcedonia,
mentre numerosi e importanti vescovi sostenevano idee dogmatiche errate, fu
la testimonianza di una donna, santa Eufemia, a indicare la verità da
seguire. Noi crediamo quindi che i vescovi, al di là della loro buona
intenzione, possono sbagliare e deviare dalla retta fede. La storia della Chiesa
ne offre abbondanti esempi: lo stesso Concilio ecumenico di Costantinopoli del
680 dichiara esplicitamente le eresie e gli «scandalosi errori»
niente meno che del patriarca di Antiochia Severo, del patriarca di Costantinopoli
Sergio e «di Onorio, papa dell’antica Roma» . Similmente san
Cirillo di Alessandria disconobbe l’autorità del patriarca di Costantinopoli
Nestorio (V sec.), e riuscì persino a farlo deporre e condannare come
eretico. Lo stesso Crisostomo, del resto, fu accusato e deposto come eretico
da un sinodo di vescovi presieduto dal patriarca di Alessandria Teofilo; e come
è noto, il grande Crisostomo fu cacciato per questo da Costantinopoli
e morì in esilio. Un caso quanto mai significativo è poi quello
di san Massimo il Confessore che si trovò a lottare per la verità,
lui semplice monaco, contro numerosi vescovi e patriarchi di gran parte della
Chiesa di allora. E gli esempi si potrebbero moltiplicare.
Negando dunque, anche in base alle chiare attestazione della storia della Chiesa,
il carisma di infallibilità del clero, l'Ortodossia rifiuta di conseguenza
anche la concezione cattolica della evolutio dogmatum: di evoluzione e modifica
delle verità dottrinali e morali si può infatti parlare solo se
si riconosce un'autorità (per esempio il papa, i vescovi o il clero in
generale) che abbia il potere e il diritto di stabilire e di approvare tali
modifiche.
Noi ortodossi facciamo quindi nostre le parole del grande san Girolamo, che
diceva: «Onoriamo il vescovo, ossequiamo il prete, alziamoci in piedi
dinanzi al diacono, ma non riponiamo la nostra speranza in essi» . «Non
bisogna onorare un uomo più della verità» , affermava san
Giustino, riecheggiando Socrate. E Tertulliano diceva: «Giudichiamo forse
la Fede in base alle persone o non piuttosto le persone in base alla Fede?»
.
Ciò non significa minimamente sottovalutare l'importanza del clero e
del ruolo sacerdotale. Anzi, fu proprio san Giovanni Crisostomo a descrivere,
nel suo libro Sul sacerdozio, la grandezza più che angelica della missione
sacerdotale. I sacerdoti - scrive - «pur vivendo sulla terra e compiendo
qui la loro opera, hanno ricevuto il compito di amministrare le cose del cielo,
con una potestà che né agli angeli né agli arcangeli Dio
ha mai dato» . Il trattato Sul sacerdozio, scritto intorno al 378, prima
ancora della sua ordinazione sacerdotale, è un'opera fondamentale che
ci aiuterà a capire la posizione del Crisostomo (e in generale della
Chiesa antica) su questo tema. Il primo punto da sottolineare è la priorità
della dimensione spirituale del sacerdozio. Oggi il prete finisce spesso per
dedicare gran parte del suo tempo a cose non spirituali: organizza la parrocchia,
organizza viaggi e pellegrinaggi, sbriga faccende burocratiche, si occupa di
problematiche sociali, e conduce sovente una vita alquanto mondana. San Giovanni
Crisostomo, invece, ripete con insistenza (evidentemente anche il clero di allora
era non poco mondano) che il prete deve dedicarsi il meno possibile alle incombenze
pratiche, per dedicarsi interamente all'«arte dell'anima», come
la definisce . Il Cristianesimo - dice - non è un programma sociale,
non è un'impresa, ma è innanzitutto una «filosofia»
, cioè una ricerca interiore, un cammino spirituale. «Per poter
conoscere Dio - diceva san Cipriano - devi prima conoscere te stesso»
. E il libro dei Proverbi: «Dove non c’è conoscenza del proprio
animo, non c’è alcun bene» .
Il Crisostomo parla in molte delle sue opere di questa priorità della
dimensione spirituale su quella sociale: «Colui che domina se stesso -
dice - non potrà essere dominato da nessuno. […] Che cosa giova
dominare su tutte le genti a uno che sia schiavo delle sue passioni? […]
Se anche comandasse a una moltitudine di principi, ma fosse soggetto all’avidità,
alla libidine, all’ira e ad altre passioni, quale vantaggio trarrebbe
dalla sua corona? La tirannide delle passioni è maggiore, perché
nessuna corona lo potrà liberare da tale schiavitù» . E'
chiaro quindi che il primo impegno e il primo lavoro del cristiano, e a maggior
ragione del sacerdote, è quello di lavorare sulla propria anima per liberarla
dalla tirannia delle passioni, e affinché la presenza dello Spirito Santo
nel proprio cuore non sia «soffocata dalle spine» degli egoismi
umani, dell’ambizione e dell’avidità (cfr. Mt 13,22). Perciò,
come diceva Platone, «non è di mura, né di triremi, né
di cantieri navali ciò di cui hanno bisogno le nazioni se vogliono essere
felici, né di popolazione né di grandezza, ma di virtù
morale» . A una Chiesa spesso troppo affaccendata in questioni pratiche
e organizzative, i Padri mandano questo monito: ritornare al cuore.
Questo aspetto, a noi sacerdoti ortodossi, viene ricordato ogni volta che celebriamo
la Liturgia di San Giovanni Crisostomo: prima della lettura del Vangelo ci viene
ricordato infatti di «calpestare a terra tutti i desideri carnali e adottare
uno stile di vita spirituale». In un altro momento della liturgia, il
sacerdote è invitato a ripetere tre volte: «Lasciamo via ogni preoccupazione
per questa vita».
Il Crisostomo è radicale su questo punto: il sacerdote non deve perdere
troppo tempo a cercare di migliorare le cose esterne, la società, il
mondo terreno: «Perché - scrive - continui ad affannarti per questo
mondo? Perché cerchi inutilmente di riempire un vaso bucato?» .
Egli stesso, che aveva alle spalle una famiglia ricca e benestante e che si
era ben avviato nella carriera retorica e giuridica, volle abbandonare tutto
questo, verso i venticinque anni, per dedicarsi a vita monastica, cioè
al primato della dimensione spirituale. Ma anche dopo, durante la sua vita di
sacerdote e di vescovo, non si stancò di ripetere che occuparsi delle
faccende pratiche, sociali, terrene, assicurarsi le comodità esteriori,
guadagnare soldi, sono tutte cose secondarie, che devono essere ridotte al minimo,
per dedicare invece la maggior parte del proprio tempo a Dio, alla preghiera,
alla terapia dell'anima. «Ci sono delle cose necessarie - dice -, senza
le quali non è possibile vivere, come i prodotti della terra [...], il
ricoprirsi con vestiti, un tetto, delle pareti, delle scarpe. Queste sono le
cose necessarie: tutto il resto è superfluo» . Lo dice chiaramente:
tutto il resto è superfluo.
Innanzi tutto, dunque, distacco dalle troppe faccende pratiche. Ma il primato
della dimensione spirituale implica, per il sacerdote, non solo la dedizione
alla preghiera personale e alla cura della propria anima, bensì anche
la centralità del culto divino. Questo aspetto accomuna certamente la
Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa. Tuttavia i cattolici trovano spesso
difficoltà nel capire perché l'Ortodossia mantenga le celebrazioni
liturgiche così lunghe, in un'aura di sacralità e gravità
che può sembrare esagerata, così "lontane" dal popolo
e dalla sua partecipazione, tanto più quando la recitazione è
salmodiata o cantata, e in greco antico (o in paleoslavo in Russia). Per comprendere
ciò, bisogna che rivolgiamo brevemente la nostra attenzione a vedere
quale sia la natura della liturgia eucaristica. San Giovanni Crisostomo la chiama:
«f????dest?t? ??s?a» , cioè: «terribile, spaventoso
sacrificio». I Padri parlano sempre della liturgia come di qualcosa di
grandioso e sacro, qualcosa che deve incutere timore. Come dice il libro di
Giobbe: «La Sua maestà non vi spaventa? E il terrore di Lui non
vi assale?» . Nel libro di Giosuè sta scritto che tra l'arca dell'alleanza
di Dio e il popolo deve esserci sempre una certa distanza , affinché
si mantenga un religioso timore e sacrale rispetto. Anche l'umile pubblicano,
che Gesù addita come modello di preghiera, «stava lontano»
e non osava «neppure alzare gli occhi» .
Lo stesso testo della Liturgia di san Giovanni Crisostomo esprime con forza
questa dimensione del sacro e del terribile: la celebrazione eucaristica è
definita con l'espressione «i divini, santi, immacolati, immortali, celesti,
vivificanti e spaventosi misteri di Cristo». Durante la liturgia il sacerdote
(o il diacono) rivolge al popolo brevi parole, lapidarie ma oltremodo significative;
dice ad esempio ad un certo momento: «Potenza!». E poco dopo: «Le
porte! Le porte!», come a ricordare che le porte devono essere rigorosamente
chiuse, affinché nessun orecchio estraneo oda misteri tanto divini e
terribili. E all'inizio del rito dell'anafora il sacerdote (o il diacono) dice
ad alta voce al popolo: «Stiamo in piedi con timore!». Tertulliano
definisce in poche parole quella che deve essere l'atmosfera che regna in chiesa:
«Timore di Dio, austera dignità, diligenza tremante, religiosa
soggezione, incedere modesto e Dio che domina su tutto!» .
Parole a cui fa da contrasto la constatazione, amara e realistica, del Crisostomo:
«Alla mensa su cui è posto l’Agnello ci accostiamo con tumulto
e confusione? Non dico ciò a caso, ma perché questa sera mi è
capitato più volte di vedere molti che si accalcano, che gridano, che
si spingono a vicenda, che ridono, che cercano di passare avanti a spintoni,
che si comportano da villani…» . Ora, di fronte a questa realtà,
alla superficialità della religione del popolo, la Chiesa ortodossa cerca
di mantenere il più possibile intatta la sacralità del mistero
divino. Per questo (come del resto anche la Chiesa latina fino a qualche decennio
fa) non permette che i laici si possano avvicinare all'altare, e non permette
loro di vedere tutto (il sacerdote è quasi sempre rivolto con le spalle
al popolo) né di udire tutto (molte orazioni sono recitate dal sacerdote
sottovoce). La stessa incensazione abbondante, che si ripete più volte
durante ogni messa, crea come una nube di mistero, dietro la quale a mala pena
si intravvede il celebrante e l'altare, mentre le austere e arcaiche note del
canto bizantino conferiscono all'atmosfera ulteriore gravità. Quando,
in certi momenti della liturgia, il sacerdote e l'altare, già separati
dal popolo con l'iconostasi, diventano del tutto invisibili con la chiusura
della Porta Santa, regna in chiesa un senso di grandiosità del divino,
si respira quel senso del sacro di cui tanto ha bisogno l'uomo di oggi, immerso
giorno e notte in un mondo completamente desacralizzato e secolarizzato, un
mondo di superficialità e di banalità.
Tutto ciò naturalmente comporta anche un profondo rispetto per la figura
del sacerdote in quanto tale, e non soltanto durante le funzioni liturgiche.
I cattolici spesso rimangono impressionati dalla riverenza con cui i fedeli
in Grecia trattano i preti, ad esempio dal modo di salutarli, che consiste abitualmente
in un profondo inchino, seguito dal bacio della mano. Quando poi un sacerdote
indossa le sue vesti liturgiche, è frequente che qualche fedele cerchi
di toccargli un lembo dell'abito, per partecipare in un certo senso alla grazia
che emana dal sacerdozio.
Questo rispetto sacrale per la figura del prete è indubbiamente favorita
anche dal modo con cui egli stesso si presenta: la barba, in genere abbastanza
lunga, la lunga tunica nera, che almeno in Grecia i preti hanno l'obbligo di
portare sempre, sono tratti che conferiscono austerità e incutono rispetto,
come già osservava nel secondo secolo Clemente di Alessandria . A questo
punto però dobbiamo aggiungere che questi dettagli esteriori (quali la
barba, la tunica, come pure i vari dettagli rituali della liturgia) sono dovuti
anche allo spirito tipicamente ortodosso che cerca di custodire gelosamente
tutte le tradizioni tramandateci dai Padri e dagli apostoli. Già nel
secondo secolo, parlando dei vari problemi dottrinali o pastorali che la Chiesa
si trovava ad affrontare e a cui era chiamata a dare risposta, sant'Ireneo scriveva:
«Se sorgesse qualche questione di dettaglio, non si dovrebbe forse ricorrere
alle Chiese più antiche, fondate dagli apostoli, per sapere da loro quello
che è certo e quello che è da abbandonare?» . Anche nelle
«questioni di dettaglio», dunque, l'Ortodossia cerca di rimanere
il più fedele possibile alla Chiesa apostolica e delle origini, poiché,
come dice il Signore, «chi è fedele nel poco è fedele anche
nel molto» .
Quanto detto finora costituisce l'anima del sacerdozio: vita spirituale e culto
divino. Ma accanto a questi due aspetti ve ne sono anche altri, che non possono
essere dimenticati. Il Crisostomo ripete sovente che il prete, e ancor più
il vescovo, è chiamato ad essere maestro dei fedeli, è chiamato
ad insegnare la retta dottrina. «Chi è investito di autorità
nella Chiesa e ha ricevuto la dignità dell'episcopato, se non insegna
al popolo il modo in cui bisogna comportarsi, non rimarrà senza colpa»
. E' importante infatti che il popolo conosca e capisca bene non solo le verità
di fede ma anche l'insegnamento morale cristiano. Questo è un punto su
cui la Chiesa ortodossa deve certamente investire di più: troppo spesso
i nostri fedeli, anche quando sono praticanti e vengono regolarmente a messa,
ignorano le più elementari norme della morale cristiana. Ora, come dice
san Basilio, il clero ha il dovere «di insegnare tutti i precetti dati
dal Signore nel Vangelo e mediante gli apostoli, e tutto ciò che ad essi
consegue», per cui, «se colui [il vescovo] al quale è stata
affidata la parola della dottrina del Signore tace qualcosa di ciò che
è necessario per piacere a Dio, è reo del sangue di coloro che,
per questo motivo, vengono a trovarsi in pericolo, o facendo ciò che
è proibito, o omettendo ciò che è obbligatorio» .
Il Crisostomo fu lui stesso un luminoso esempio di insegnante della fede, attraverso
i suoi numerosi discorsi e scritti. Ma fu anche, soprattutto dal 397, data della
sua elezione a patriarca di Costantinopoli, un modello di pastore e amministratore
della Chiesa. Abbiamo parlato prima della priorità della dimensione spirituale
e liturgica nella vita del sacerdote, abbiamo anche accennato al compito dell'insegnamento;
non possiamo però ignorare che l'uomo di Chiesa, specialmente se è
vescovo, deve saper affrontare una gran quantità di problematiche pratiche:
il Crisostomo parla abbondantemente di questo nel suo trattato Sul sacerdozio.
Un vescovo (e in misura minore un prete) ha mille incombenze: deve occuparsi
dei poveri, delle vedove, dei beni materiali della Chiesa, deve gestire i rapporti
spesso difficili con lo Stato.
Quest'ultimo punto ci fa ricordare la vera e propria guerra che il Santo dovette
sopportare da parte dell'autorità civile di allora: prima il potentissimo
eunuco imperiale Eutropio, poi l'imperatrice Eudossia, non diedero tregua al
patriarca di Costantinopoli, infastiditi e offesi dai suoi discorsi a difesa
dei poveri e della moralità, e ottennero infine di farlo morire in esilio.
Molti anni prima che questi fatti accadessero, il Crisostomo aveva scritto che
i vizi più gravi in un sacerdote sono «l'ipocrisia», «i
discorsi tesi a compiacere l'uditorio», «l'ingraziarsi i ricchi»
e «il chiudere la bocca di fronte ai potenti» . Egli aveva ben presente
il versetto dei Salmi che dice: «Non confidate nei potenti, in un uomo,
che non può salvare» ; e le parole dell'apostolo Paolo: «Se
piacessi agli uomini non sarei più servitore di Cristo!» . Per
questo scrisse: «E' del tutto irrilevante offendere degli esseri umani,
quando per rispetto ad essi siamo costretti a contraddire la volontà
di Dio» .
La libertà della Chiesa, come tutti sappiamo, è spesso compromessa
dall'ostilità o anche dall'ambigua protezione dei poteri statali. Il
legame con lo Stato è sempre stato pericoloso per la Chiesa, anche se
non di rado le è stato di vero aiuto e appoggio. La Chiesa ortodossa
ancor oggi, indipendentemente da quale sia la qualità religiosa e morale
dello Stato, prega in ogni messa per «tutte le autorità e potestà
dello Stato» e, secondo le parole della Liturgia di san Giovanni Crisostomo,
chiede a Dio di concedere ai sovrani «un regno tranquillo, affinché
anche noi, grazie alla pace che essi ci garantiscono, possiamo trascorrere una
vita serena e pacifica».
Forse la cosa giusta è proprio questa: non immischiarsi in questioni
politiche o in troppe azioni sociali, ma pregare. Pregare è la vocazione
specifica del clero. Perciò noi, che non ci schieriamo con i politici,
né combattiamo a fianco dei soldati, né ci occupiamo dell'accrescimento
agricolo, preghiamo però all'inizio di ogni messa «per tutte le
autorità e potestà dello Stato», «per l'esercito amico
di Cristo», «per la buona produzione dei frutti della terra»,
e per tutte le altre esigenze terrene dell'umanità. Questa è la
preghiera della Chiesa. E' invece compito dello Stato e della società
civile, cioè dei cristiani laici, occuparsi dell'aspetto pratico e concreto:
scuole, ospedali, aiuto ai poveri, eccetera. Va notato però che in certi
contesti storici, ad esempio durante i secoli della turcocrazia in Grecia, quando
mancava uno Stato cristiano che si occupasse di tali questioni sociali, era
la Chiesa stessa a gestire le scuole, e curare gli ammalati e a portare soccorso
concreto ai poveri. Inoltre, in una società, come era quella greca tradizionale,
sostanzialmente omogenea e senza grandi differenze di classe, il ruolo sociale
della Chiesa non aveva bisogno di specifiche istituzioni: esso si adempiva da
sé, con naturalezza, nella spontanea solidarietà e carità
cristiana tra famiglie.
Il Crisostomo stesso, del resto, mostrò sempre di essere un pastore attento
anche ai bisogni materiali dei fedeli. Le vedove, i poveri, i malati non mancarono
mai delle sue cure. Un esempio della sua umanità è anche l'episodio,
che egli stesso narra all'inizio del libro Sul sacerdozio : sua madre lo supplicò
di non lasciarla sola; egli allora rinunciò al suo progetto di farsi
monaco per rimanere con sua madre e prendersi cura di lei. Anche più
tardi, come vescovo, si dimostrò sempre molto sensibile alle fragilità
della natura umana, comprensivo, elastico, attento al vero bene dell'uomo e
non alla sterile difesa di princìpi astratti. In poche parole egli delinea
il suo modello pastorale: «Il prete - scrive - deve saper agire su più
fronti, poiché è costretto ad avere a che fare con uomini che
sono anche sposati, allevano figli, governano servi, dispongono di molte ricchezze,
sono coinvolti in occupazioni politiche e detengono cariche pubbliche. Dicendo
che deve saper agire su più fronti non intendo dire che deve essere subdolo,
adulatore, ipocrita, ma che deve anzi comportarsi con piena libertà e
franchezza, sapendo però anche venire a giusti compromessi quando le
situazioni lo esigono. Non è possibile infatti che egli tratti tutti
i fedeli nello stesso modo, come non è giusto che un medico tratti con
un'unica terapia i diversi malati» . «Perciò egli deve avere
grande saggezza e mille occhi, per vedere da ogni lato quale sia la disposizione
della singola anima. Infatti, come esistono persone che finiscono con l'ostinarsi
e perdere ogni speranza di salvezza per non essere riusciti a sopportare medicine
troppo amare, così ce ne sono altre che peggiorano, diventano indifferenti
e precipitano in peccati ancora più grandi per non essere stati corretti
con la severità che i loro peccati esigevano» .
Da quanto detto finora sulla concezione che san Giovanni Crisostomo aveva del
ruolo del sacerdote, del vescovo e in generale del ruolo spirituale e pastorale
del clero, possiamo farci un'idea di quella che ancor oggi è la mentalità
e la prassi della Chiesa ortodossa. Ma soprattutto possiamo renderci conto tutti,
ortodossi e cattolici, noi tutti che condividiamo il grande, divino e apostolico
sacramento del sacerdozio, quanto la nostra missione sia delicata e difficile.
«Vedo questa mia anima - diceva il Crisostomo - debole e piccola e vedo
la grandezza di questa diaconia e l'estrema difficoltà dell'impresa»
. E diceva: «Una persona inesperta di costruzioni non oserebbe impegnarsi
nella costruzione di una casa né una persona ignara della scienza medica
si accingerebbe a curare dei malati» . Allo stesso modo dovrebbe diventare
prete solo chi veramente è «conoscitore di ogni terapia adatta
all'anima» . Tutti noi dovremmo renderci conto che, se non siamo esperti
di medicina, e ci impegniamo tuttavia nella cura dei malati, faremo più
danni che bene; così, anche come preti abbiamo una responsabilità
enorme; un sacerdote incapace o maldestro può «condurre alla rovina
non una o due persone, ma moltitudini intere» , dice il Crisostomo e conclude
che per questo motivo dovrebbero essere «esclusi dal governo della Chiesa»
non solo tutte le donne ma anche «la maggior parte degli uomini»
.
Di fronte alla grandezza di questa nostra missione, che certamente supera di
gran lunga le nostre forze umane, non possiamo dunque che invocare la grazia
del nostro Signore e l'intercessione della santa Madre di Dio affinché,
come recita il rito ortodosso di ordinazione sacerdotale, «possiamo essere
degni di stare dinanzi all'altare di Dio irreprensibilmente, di annunciare il
Vangelo del suo regno, di operare sacramentalmente la sua parola di verità»,
per la salvezza della nostra anima, delle anime a noi affidate e a gloria del
nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo.
Archimandrita Dr. Georgios Chrysostomou
Vicario Generale della Diocesi
di Veria, Grecia
Professore dell’Accademia Superiore Ecclesiastica di Salonicco
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Cipriano di Cartagine, Epistolae, LXXIV,
10.
Ippolito di Roma, Traditio apostolica, XLIII.
Tertulliano, De praescriptione haereticorum, XLII, 7.
Ibidem, VI, 3.
Ibidem, VI, 4.
Papia, in Eusebio di Cesarea, Historia ecclesiastica, III, 39, 4.
Giovanni Crisostomo, Ad viduam iuniorem, II, 1.
Vincenzo di Lérins, Commonitorium, XXXIII.
Concilio di Nicea II, Terminus; cfr. anche can. I.
Gregorio VII, Registrum, IV, 6.
Leone VII, Enciclica Si instituta ecclesiastica.
Giovanni Crisostomo, In epistolam 1 ad Timotheum, V, 2.
Ibidem, I, 2.
Cirillo di Alessandria, In epistolam 1Corinthios, VII, 8.
Basilio di Cesarea, Epistolae, LII, 1.
Concilio di Costantinopoli III, Terminus.
Girolamo, In Michaeam prophetam, II, 7.
Giustino, II Apologia, III, 6; cfr. Platone, Respublica, X, 595c, e Aristotele,
Ethica Nicomachaea, I, 6, 1 (1096a 17).
Tertulliano, De praescriptione haereticorum, III, 6.
Giovanni Crisostomo, De sacerdotio, III, 5.
Ibidem, VI, 5-6.
Ibidem, I, 3.
Cipriano di Cartagine, Ad Demetrianum, XVI.
Proverbi, 19, 2 (secondo il testo ebraico).
Giovanni Crisostomo, In epistolam I ad Timotheum, XVIII, 2.
Platone, Alcibiades, 134b.
Giovanni Crisostomo, In Matthaeum, LXXVI, 5.
Giovanni Crisostomo, De inani gloria et de educandis liberis, XIII.
Giovanni Crisostomo, De sacerdotio, VI, 4.
Giobbe 13,11.
Giosuè, 3,4.
Luca, 18,13.
Cfr. Tertulliano, De praescriptione haereticorum, XLIII, 5; cfr. Ibidem, XLI.
Giovanni Crisostomo, De coemeterio et cruce, III (PG 49,397).
Clemente di Alessandria, Paedagogus, III, 61, 1: «[La barba] conferisce
al volto un aspetto venerando che colpisce chi lo osserva».
Ireneo di Lione, Adversus haereses, III, 4, 1.
Luca, 16,10.
Giovanni Crisostomo, In Titum homiliae, I, 2.
Basilio di Cesarea, Moralia, LXX, 6-7. Cfr. Ez 3,18.
Giovanni Crisostomo, De sacerdotio, III, 9.
Salmi, 145,3.
Galati, 1,10.
Giovanni Crisostomo, De sacerdotio, II, 7.
Ibidem, I, 5.
Ibidem, VI, 4.
Ibidem, II, 4.
Ibidem, III, 8.
Ibidem, IV, 2.
Ibidem, IV, 2.
Ibidem, VI, 1.