«u certamente conosci s. Niceforo,
che ha trascorso lunghi anni nel deserto e nell’esichia e che in seguito dimorò
nei luoghi più solitari della santa Montagna senza concedersi tregua. Egli
ci ha tramandato la pratica della sobrietà dopo essersi nutrito degli scritti
dei Padri». Con queste parole s. Gregorio Palamas, nella prima delle sue Triadi
in difesa dei santi esicasti, ci ha delineato, nei tratti essenziali, il più
antico ritratto di questo santo in rapporto alla sobrietà, della quale egli
era stato un iniziato – se ne nutrì dapprima alla scuola dei Padri –, un cultore
–, la praticò a sua volta nell’esichia – ed un maestro – la trasmise infine
nel suo magistero ascetico. Nella seconda Triade, poi, l’arcivescovo
di Tessalonica precisa che Niceforo aveva reso la sua “bella confessione”
davanti al primo dei Paleologhi, colui “che pensava conforme ai latini” (Michele
VIII) e che per questo era stato esiliato. Questa notizia ci offre un appiglio
sicuro per la sua cronologia – siamo pertanto nel 1276-77, gli anni cruciali
della spedizione punitiva dell’italiano Licario per reprimere l’opposizione
degli Aghioriti all’unione di Lione – e ci apre ulteriori spiragli conoscitivi,
consentendoci di identificarlo con il Niceforo autore, con il monaco Clemente,
suo compagno di sventure, di una relazione scritta (diavlexi) sul processo da essi subito
davanti al patriarca latino e legato papale, il domenicano Tomaso Agni da
Lentini, a S. Giovanni d’Acri (la greca Tolemaide).
Possiamo così circoscrivere
l’ambito spaziale della sua esistenza: arresto all’Athos, cinque mesi e mezzo
di carcere a Costantinopoli, trasferimento nell’ultimo baluardo latino in
Terrasanta per il giudizio, conseguente esilio a Cipro, probabile permanenza
– ipotizzata da Antonio Rigo – al Monte S. Aussenzio in Bitinia, centro della
resistenza monastica all'unione con Roma ed infine ritorno all’Athos, dove
Niceforo chiuse la sua esistenza terrena, nel proprio esicasterio, tradizionalmente
posto nei dintorni di Lavra. Non risulta infatti che la sua ascesi solitaria
abbia avuto, come esito naturale – secondo una tipologia evolutiva estremamente
frequente –, il formarsi intorno a lui di un agglomerato di vita comunitaria:
nessuna fonte gli attribuisce il titolo di igumeno, ma unicamente gli appellativi
di monaco e di prete. Del resto il suo amore appassionato per l’esichia, di
cui è magistrale espressione il suo rinomato Logos sulla custodia del
cuore, rende estremamente plausibile che, anche una volta pervenuto alla maturità
spirituale, egli non abbia impresso una svolta cenobitica al proprio itinerario
ascetico.
Per quanto riguarda invece
le coordinate temporali, il fatto che s. Gregorio Palamas lo annoveri tra
gli «antichi tra i santi» induce a credere ch’egli fosse di una generazione
antecedente rispetto a quelli che l’arcivescovo di Tessalonica enumera come
gli interlocutori di Niceforo, cioè s. Atanasio di Costantinopoli e s. Teolepto
di Filadelfia, il maestro stesso del Palamas. In conclusione gli estremi cronologici
di Niceforo sarebbero da porre – come propone il Rigo – tra il primo ed il
penultimo decennio del XIII secolo: egli risulta in tal modo un contemporaneo
di s. Melezio (1208-1286), il confessore dell’ortodossia al Monte Galesion.
Più arbitraria ci sembra la cronologia interna di Niceforo stabilita dallo
studioso veneto, che pone il suo ingresso all’Athos intorno al 1240 e la composizione
del Logos sulla custodia del cuore tra il 1270 ed il 1275.
Abbiamo volutamente trascurato
sinora il problema – cruciale per il nostro intervento – delle origini di
s. Niceforo. S. Nicodemo l’Aghiorita, nell’Acoluzia dei SS. Padri dell’Athos,
lo definisce «in precedenza latino», prima di abbracciare la fede ortodossa.
L’Aghiorita non pare tuttavia disporre di fonti diverse dalle nostre, cioè
le testimonianze del Palamas nelle Triadi, e non brilla certo per precisione
nel riprenderle: basti pensare che, nella Filocalia, pone Niceforo
«fiorente poco prima del 1340». In realtà l’arcivescovo di Tessalonica non
lo dice espressamente di confessione latina, ma «di stirpe di italiani», dei
quali aveva poi abbandonato i «cattivi dogmi» (la kakodoxia). Ci sembra pertanto tutt’altro
che infondata la tesi che fa di Niceforo – nonostante il parere contrario
di Daniel Stiernon e dello stesso Rigo – un greco di Calabria. Sarebbe in
tal caso un figlio di quell’ellenismo italiota, sempre più ristretto in aree
linguistiche delimitate, con una propria gerarchia episcopale – forzatamente
inquadrata nella Chiesa di Roma – in via di drastica riduzione, che non solo
aveva dovuto accettare tutti i dogmi latini, ma che nella grecità del proprio
rito aveva subito un’ibridante latinizzazione.
Ci sembra del resto suggestiva
la prospettiva di vedere in Niceforo una figura per un verso analoga e per
l’altro specularmente opposta a Barlaam di Seminara: analoga quanto alla migrazione
materiale da Occidente in Oriente ed opposta quando all’esito radicalmente
diverso del medesimo itinerario spirituale. Esso dovette consistere per entrambi
in un agognato ritorno alle proprie radici culturali e religiose, in un’immersione
nelle sorgenti pure dell’ellenismo, per sottrarsi alla soffocante ed invasiva
pressione filosofica e spirituale latina. Senonché la sopravvenuta estraneità
dell’ellenismo italiota rispetto al formalizzarsi della dottrina esicastica
– avvenuto nel frattempo in territorio metropolitano, in assoluta coerenza
con i suoi presupposti teologici, antropologici ed ascetici – determinava
in Barlaam l’errata convinzione che il suo spiritualismo nominalista, antitetico
al realismo della scolastica, rappresentasse l’autentica tradizione orientale.
La conseguente, diretta, e per lui traumatica, scoperta che invece quest’ultima
rappresentava un altro realismo, quello della partecipazione dell’uomo, nella
sua integrità pneumatosomatica, all’esperienza deificante della grazia increata,
provocherà il suo drastico, totale rifiuto dell’esicasmo, nella sua teorica
e nelle sue pratiche psicofisiche ormai consolidate. Il suo predecessore Niceforo
invece, un secolo prima, aveva assimilato così profondamente la linfa purissima
della propria originaria tradizione da divenire uno dei teorici più autorevoli
dell’esicasmo: aveva infatti sentito persino l’esigenza di registrare e trasmettere
agli altri, con l’apporto creativo e personale del suo Logos, ciò che
egli stesso aveva ricevuto.
Un indizio a favore di un’origine
calabrese di Niceforo potrebbe essere il suo stesso nome monastico. Le memorie
sacre della santa Montagna registrano infatti, ai loro primordi, un monaco
calabrese di quel nome, dedito dapprima ad forma estrema di eremitismo, ma
passato poi sotto il giogo dell’obbedienza nei confronti del grande Atanasio.
Pur nell’assenza di documentati riscontri cultuali, si tratta di una figura
di rilevante interesse, come tramite di congiunzione tra la zona monastica
del Merkourion, nell’omonima tourma nella Calabria settentrionale,
e quella del Monte Athos, che furono entrambe, in periodi successivi della
sua vita, spazio sacro della sua ascesi. Le testimonianze agiografiche su
di lui, non sono dirette, ma incrociate. Della fase calabrese della sua esistenza
siamo informati dalla Vita, di stesura tessalonicese, di s. Fantino
il Nuovo, uno dei maggiori esponenti del monachesimo greco della Calabria
settentrionale, nello specifico mercuriense, testo scoperto ed edito da Enrica
Follieri: vi si nomina infatti Niceforo come uno dei due discepoli che, dopo
il 965, accompagnano il grande Fantino nella sua migrazione in Grecia, dove,
a Tessalonica appunto, si concluderà, nel 974, la sua vicenda terrena.
Tutte le informazioni su Niceforo
in nostro possesso, compresa la conferma della sua discendenza spirituale
da s. Fantino, ci vengono però dalle due Vite di s. Atanasio l’Athonita,
quella di Atanasio di Panagiou – scritta tra il 1010 ed il 1025 – e quella
anonima, composta tra il 1050 ed il 1150. In esse il suo discepolato fantiniano
è non solo esplicitamente dichiarato, ma viene altresì avvalorato dal suo
stesso epiteto di Niceforo il Nudo, che richiama uno dei tratti essenziali
e caratteristici dell’ascesi del grande Fantino. Quest’ultimo era stato per
tutta la vita un irriducibile nostalgico della solitudine, risospinto periodicamente
nell’esichia, il cui desiderio lo bruciava dentro come un fuoco e gli faceva
compiere gesti estremi, come la fuga dai monasteri che aveva fondato ed il
rifiuto di qualsiasi indumento. Questo periodico ritorno alla nudità incolpevole
dei progenitori avveniva in Fantino, ora per il naturale disfacimento del
suo ruvido vestito dopo periodi di errabonda vita sui monti, ora per esplicita
scelta del santo, come quando, al momento di scomparire per sempre dalla Calabria,
dopo una visione estatica dell’aldilà, egli si sfilò il vestito, con gesto
provocatorio, invitando i suoi cenobiti a fare altrettanto, nel presupposto
che fuga dal cenobio, per disperdersi nelle solitudini montane, e nudità integrale
rappresentassero un’endiadi ascetica.
Precisamente a questo errare
nudo anche di Niceforo, insieme al maestro, sui monti della Calabria, dimorando
in luoghi inaccessibili, fa riferimento il primo agiografo di Atanasio, che
enfatizza tra l’altro il ruolo di Niceforo accanto a Fantino, il quale lo
mette persino a parte della rivelazione estatica a lui concessa. Con un voluto
parallelismo Atanasio di Panagiou osserva che, mentre Fantino si fissa a Tessalonica,
Niceforo, attratto dalla fama di s. Atanasio passa all’Athos e si pone sotto
la guida di quest’ultimo. Aggregatosi così a coloro che vivevano nell’obbedienza
di questo cenobiarca – a sua volta grande estimatore dell’esichia –, egli
ottiene dalla sua condiscendenza di mantenere le proprie consuetudini eremitiche
quanto all’abito – gli è consentito di avere come unico indumento un tessuto
tutto lacero portato a foggia di lenzuolo, divenendo così quello che tecnicamente
veniva chiamato un sindonita – ed al vitto (si ciba infatti, solo dopo
il tramonto, di crusca salata e inumidita in acqua tiepida). Pur nella profonda
unità della politeia monastica, la diaita eremitica infatti si distingueva
per consuetudini peculiari relative proprio all’abito, limitato ad alcuni
capi essenziali, rispetto allo scrupolo cenobitico di indossare il costume
monastico nella totalità delle sue componenti, così ricche di valore simbolico,
e ad un particolare regime alimentare, ben più rigoroso, rispetto a quello
del cenobio, quanto ai cibi ed alle scansioni dei pasti. Si tratta precisamente
di quella che, nella Vita di s. Pietro di Atroa, viene chiamata la
“regola più severa”, l’akribestero kanon.
Questa tolleranza atanasiana
si inquadra perfettamente nella sua tipologia monastica: ben lungi dall’essere
un “convertito” al cenobitismo – come hanno affermato Eulogio Kourilas e,
più recentemente, Julien Leroy – egli era un portatore del modello ascetico-istituzionale
microasiatico, maturato nel “cuore” monastico dell’impero, cioè nelle aree
a densa popolazione monastica dell’Asia minore, la Bitinia ed il retroterra
efesino, per superare l’endemica tensione tra eremitismo e cenobitismo, salvaguardando
i vantaggi offerti da entrambe le vie. Le modalità di questa non facile sintesi
consistettero essenzialmente nel conferire piena legittimità istituzionale
all’eremitismo innestandolo sul tronco del cenobitismo: in questa sintesi
microasiatica o mediobizantina – come la chiama Rosemary Morris – che riprende
la sapiente tolleranza sempre dimostrata dalla legislazione privilegiante
il cenobitismo – quella ecclesiastica, con le prescrizioni basiliane, nel
IV secolo, e quella civile, con le Novelle
giustinianee, nel VI –, i cenobiti attratti dall’esichia potevano viverla
ai margini del cenobio, sotto il rigido controllo del suo superiore e continuando
a dipendere da esso per la vita liturgica. Espressione compiuta di questa
sintesi fu la laura, diametralmente opposta, quanto a
profilo istituzionale, all’omologo palestinese del V-VI secolo: non più un
agglomerato di celle esicastiche con al centro un piccolo cenobio per i servizi
comuni, ma un grande cenobio dal quale dipende un limitato numero di eremitaggi.
Da quanto risulta dalle descrizioni del cenobio athonita di s. Atanasio, chiamato,
in virtù dell’inversione semantica appena spiegata, Megisth
Laura – fornite
sia dalle Vite del santo sia dalla sua normativa monastica, a noi pervenuta
–, la figura dell’esicasta Niceforo rientra nel novero di quel limitato e
predeterminato numero di asceti, ai quali il santo lasciava condurre, non
troppo lontano dal cenobio, quella vita solitaria, che anch’egli continuava
a ritenere la più alta, ma ad un tempo anche la più difficile e rischiosa,
e pertanto consentita soltanto a pochi.
Successivamente però – e non
inaspettatamente per noi, nel contesto del processo evolutivo rapidamente
in corso, in quegli anni, sulla santa Montagna, dove monaci senza fissa dimora
(anestioi), con i piedi nudi e mai lavati
(gimnopode e aniptopode), e con pesanti collari di ferro, entravano a
frotte nella mandra di Atanasio – Niceforo passa «dall’eccellenza dell’eremia»
(ta parasima
ti erhmia), come si esprime Atanasio di Panagiou, a quella nelle virtù del cenobio.
Con un vero proprio rito di iniziazione cenobitica – implicitamente descritto
dal secondo biografo di s. Atanasio – Niceforo si spoglia del suo lenzuolo
per assumere l’abito, ed insieme il genere di vita, del cenobita. Anche in
questo caso il suo itinerario personale è emblematico del percorso ascetico
di un’intera categoria, quella degli esicasti della santa Montagna, sino ad
allora la componente indiscutibilmente egemone al Monte Athos ed ora inesorabilmente
destinata ad essere assorbita dal nuovo cenobitismo riformato, ibridato di
eremitismo, moderno anche nella dotazione di inusitate risorse fondiarie per
la generosità dei due basilei, Niceforo Focas prima e Giovanni
Zimisce poi. La sua personale “conversione” risulta pertanto esemplarmente
coincidente con la coeva assimilazione al modello cenobitico degli esicasti
di Chaldou, una specie di “riserva” dove i superstiti tenaci estimatori della
vita solitaria erano stati concentrati per vivere la loro esichia con un minimo
di lavoro collettivo, integrato dalla carità dei monasteri. Tale agglomerato
infatti, prima del 991, dovette trasformarsi anch’esso in un cenobio, debitamente
dotato di risorse fondiarie per il proprio mantenimento.
È indicativo il confronto tra
l’esito finale del percorso ascetico dell’esicasta Niceforo, entrato proprio
nel gregge di chi era accusato di causare l’estinzione della vita solitaria,
qual’era stata sino ad allora praticata sulla santa Montagna, e l’irriducibile
opposizione di quegli stessi ambienti eremitici, che avevano prodotto, tra
il 972 ed il 978, nella Vita di s. Pietro l’Athonita – scritta da un loro esponente, il monaco Nicola
– un testo agiografico a tesi, un manifesto ideologico in forma narrativa,
per ribadire l’eccellenza dell’eremitismo assoluto, del quale il biografato
veniva presentato come il campione, l’archetipo locale. Nella prospettiva
di Nicola il passo compiuto da Niceforo sarebbe stato equiparabile all’abbandono
stesso dello stato monacale, nel presupposto che il cenobio sia ancora parte
del mondo: non è un caso che l’espressione «monasteri del mondo», per indicare
i cenobi, figuri nelle subdole parole che il demonio, mascheratosi da angelo
di luce, rivolge a s. Pietro per indurlo ad abbandonare l’esichia al fine
di giovare alla salvezza altrui nella via del cenobio. Si potrebbe anche vedere,
nell’arrendevolezza finale di Niceforo nei confronti del modello monastico
atanasiano, un tratto caratteristico del monachesimo italo-greco, i cui maggiori
esponenti passeranno dall’eremitismo al cenobitismo precisamente sulla base
dell’argomentazione addotta dal tentatore per distogliere s. Pietro dalla
propria ascesi solitaria. Con la variante però che tale argomento – che cioè
la salvezza di un’anima è più meritoria dell’eroismo della solitudine –, figura
sulla bocca non più del demonio, ma dell’essere che rivela la volontà divina.
Dopo essere diventato, da campione
dell’esichia, modello di obbedienza, il calabrese Niceforo morì, forse ancor
prima della fine del secolo, se la menzione del grande Atanasio, registrata
da entrambi gli agiografi a proposito della traslazione delle sue reliquie,
implica la presenza all’evento dell’Athonita – scomparso a sua volta tragicamente
il 5 luglio di un anno tra il 997 ed il 1006 – e non piuttosto l’attribuzione
a quest’ultimo della costruzione del nuovo sepolcreto, nel quale i resti mortali
di Niceforo venivano trasferiti. In tale occasione si constatò che le ossa
del santo presentavano dei coaguli di miron, e si produsse pertanto nel
monastero, al momento della traslazione, un percepibile fenomeno di osmogenesi.
Niceforo entra così nella categoria dei santi mirovliti.
Con i due Nicefori, calabresi
entrambi a mio parere, si apre e si chiude il periodo per il quale le fonti
agiografiche in nostro possesso – in virtù dell’estesa rete di conoscenze
e di interscambio di uomini, che caratterizzava, nell’ecumene monastica romano-orientale,
i rapporti tra le diverse aree, anche geograficamente lontane – ci documentano
una persistente trama di rapporti tra il monachesimo aghioritico e quello
calabro-greco, in particolare quello della Calabria settentrionale. La riscontrata
conoscenza, in una di queste isole monastiche, di episodi avvenuti nell’altra,
presuppone di per sé un travaso di uomini, dato che a quell’epoca le notizie
potevano viaggiare solo tramite la mobilità umana. L’anonimo agiografo di
s. Nilo di Rossano, attivo nei primi decenni dell’XI secolo, ci informa che
una tremenda prova di obbedienza, imposta dal santo ai monaci del cenobio
da lui appena costituito – l’incendio delle vigne del monastero –, aveva suscitato
al Monte Athos una formidabile ammirazione, evidentemente per la ipotagi, la sottomissione, di quei cenobiti e insieme per lo
zelo, tutto studita, del cenobiarca per l’obbedienza e la povertà. Tale annotazione
fa presupporre l’esistenza di uno spazio comune creato dalla condivisa professione
monacale, che annullava, per così dire, le distanze e nel quale pertanto,
se circolavano le notizie, doveva di conseguenza svolgersi un intenso traffico
di persone, cioè di monaci.
Un’indicazione convergente
sul percorso inverso, di uomini ed informazioni, dall’Athos all’Italia ellenofona
ci viene poi dalla nota autografa dello stesso Nilo, vergata su di un codice
da lui trascritto, il Crypt. B. b. I, relativa all’antico possesso del medesimo
codice da parte di Niceforo il Nudo, di cui si registra l’avvenuto decesso:
è detto infatti «di beata memoria». Se un monaco seminudo, avvolto in un lenzuolo
lacero, scalzo e con i piedi sporchi, era stato possessore di un manoscritto
del Lausiakon di Palladio, è palese l’inadeguatezza dei nostri parametri di comprensione
e, soprattutto di giudizio, in ordine a questi personaggi, così ferini e nel
contempo così acculturati.
S. Nilo e s. Atanasio, come
si desume dalle rispettive Vite, non si incontrarono mai, pur essendo
contemporanei, anche se non coetanei: Atanasio era di almeno un quindicennio
più giovane di Nilo e morì forse qualche anno prima della sua morte, avvenuta
nel 1004. Non risulta pertanto arbitraria una lettura sinottica di queste
due figure, a partire anche soltanto dalla concomitanza dei dati biografici,
dai quali emerge un’analogia di ruoli nelle rispettive aree monastiche. Entrambi,
a differenza di altri – dei quali si dice che compirono il percorso del sole,
irradiando da oriente ad occidente, o quello inverso –, sono sempre rimasti,
nei loro molteplici spostamenti, nell’ambito di quell’area dell’ecumene dei
Romei, orientale od occidentale, nella quale avevano visto la luce. S. Atanasio,
lasciata la nativa Trebisonda, è iniziato alla vita monastica nella zona del
Monte Kyminas e si trasferisce poi al Monte Athos, dove la sua esichia evolve
nella fondazione di un cenobio. S. Nilo, a sua volta, lasciata la natia Rossano,
è iniziato alla vita monastica nella zona del Merkourion, dove pratica a lungo
l’esichia; si trasferisce poi presso il podere familiare, situato nei dintorni
dell’attuale S. Demetrio Corone, dove fonda il cenobio dei SS. Adriano e Natalia
e donde emigrerà poi verso nord, risalendo la penisola, in terra latina, stabilendosi
prima a Valleluce, presso Capua, poi a Serperi, presso Gaeta, ed infine a
Grottaferrata, alle porte di Roma. Entrambi questi rakendutai, cioè “straccioni” in virtù
dell’abito della loro professione monastica, sul modello dei profeti vetero
e neo-testamentari hanno avuto influenti relazioni con i sovrani rispettivamente
d’oriente (s. Atanasio con Niceforo Focas e con Giovanni Zimisce) e d’occidente
(s. Nilo con Ottone III).
Soprattutto però il loro itinerario
monastico appare visibilmente parallelo, configurandosi per entrambi come
il percorso di un asceta bruciato dal fuoco per l’esichia, che perviene a
dar vita ad un cenobio senza deflettere dalla convinzione che il precedente
genere di vita, abbandonato per l’altrui vantaggio, rimane il più alto e profittevole
e continuando a perseguirlo, a livello personale, come ideale supremo. Nel
contempo il cenobitismo, al quale entrambi si piegano, riprende significativi
tratti dello spirito basiliano, chiaramente mediati dal rinnovamento studita.
In alternativa infatti ad una linea di pensiero, che vedeva nelle forme più
estreme di ascesi individuale – a scapito della stessa dinamica liturgico-sacramentale
– la chiave di accesso alla perfezione spirituale, la concezione basiliano-studita
pone l'azione liturgica come terzo pilastro, accanto all'obbedienza ed alla
laboriosità, della vita monastica. La memorabile definizione di quest’ultima,
pronunciata da s. Nilo a Montecassino: «Il monaco è un angelo e la sua opera
è misericordia, pace e sacrificio di lode» (con una ripresa, dal contesto
liturgico, della risposta all’ammonizione diaconale che precede l’anafora),
trova puntuale riscontro nel typikon di s. Atanasio l'Athonita, che,
in stretta analogia con l'aforisma niliano, definisce la vita monastica una
vocazione angelica, per il comune compito, degli angeli come dei monaci, di
lodare e glorificare Dio. è
evidente che in questa definizione la metafora isoangelica non si riferisce,
come altrove nel lessico monastico, all'anticipazione in terra della condizione
escatologica dell'uomo, bensì all'assimilazione del ceto monacale ai cori
angelici nel cantare la gloria divina, delineando in tal modo una concezione
– precisamente quella promossa dal rinnovamento studita – più ascetico-liturgica
della vita monastica – in quanto incentrata su lavoro e preghiera – che non
teologico-antropologica.
Non sappiamo se alludendo al
confluire all’Athos di Calabresi – insieme a provenienti dalla stessa Roma,
dall’Italia, da Amalfi, oltre che dalla Georgia e dall’Armenia, tutti attirati
della fama di Atanasio – i due agiografi del santo (che in questo passo sottintendono
le vicende, da noi altrimenti conosciute, relative alla fondazione dei monasteri
athoniti di Iviron e degli Amalfitani) avessero in mente soltanto la figura
di Niceforo il Nudo, della quale peraltro poco più avanti avrebbero scritto,
oppure fossero a conoscenza del raccogliersi di altri monaci ellenofoni calabresi,
attorno ad Atanasio. Comunque un bio, questa volta italo-greco,
ci informa, con una certa precisione, del temporaneo ma significativo soggiorno
di un altro monaco calabrese sulla santa Montagna. Si tratta di s. Bartolomeo
da Simeri, il fondatore del monastero della Madre di Dio, la Nuova Hodigitria,
detto del Patir, nei dintorni di Rossano, nonché di quello del Salvatore
Pantokrator sull’acroterio in glossa phari nella città di Messina,
entrambi sedi di importanti archimandritati in età normanna. Costui, ci informa
il suo agiografo, dopo la fondazione del Patir rossanese – pertanto
dopo il 1105 – si recò a Costantinopoli, dove fu benevolmente accolto dal
basileu
Alessio I Comneno e dalla sua consorte Irene Ducena – siamo pertanto prima
del 1118 –, e qui venne richiesto da un personaggio autorevole, assai vicino
ai sovrani, un tale Basilio Kalimeris, di recarsi al Monte Athos per farsi
carico della riforma del locale monastero di S. Basilio, di cui il predetto
Basilio era ktitwr,
cioè fondatore-proprietario. Sembra persino che, nel momento in cui s. Bartolomeo
accettò di diventare igumeno di questo monastero, il potente laico ktitwr del medesimo glielo abbia
donato, sì che il monaco calabrese, nell’assumerne la prostasia, ne divenne anche il proprietario.
Per questo, come lascia intendere l’agiografo, da allora (ektote) – dopo che, al momento di
ritornare in Calabria, Bartolomeo, in qualità di ktitor, vi ebbe nominato un nuovo
igumeno – questo monastero athonita fece parte del complesso di fondazioni
che dipendevano dall’autorità del cenobiarca del Patir (il Padre, appunto,
per antonomasia).
Il medesimo agiografo insinua
poi che la denominazione “del Calabrese”, attribuita a questo monastero, alluda
proprio alla provenienza del suo igumeno riformatore, secondo fondatore e
nuovo proprietario, cioè allo stesso Bartolomeo. Senonché un documento sicuramente
anteriore alla venuta di s. Bartolomeo all’Athos – ipomnima del Proto Paolo dell’ottobre 1080 –
menziona già questo monastero “del Calabrese”; ci si potrebbe pertanto spingere
ad ipotizzare – come fece Agostino Pertusi – che l’epiteto provenisse dal
suo primo ktitor e che pertanto lo stesso Basilio Kalimeris fosse un italiota, cioè un
italiano ellenofono, proveniente segnatamente dalla Calabria. D’altra parte
non è sicura la derivazione del nome di questa fondazione da uno dei suoi
due fondatori, in quanto un ulteriore documento databile al 1080 – l’atto
di donazione alla Grande Lavra del kellion di Prophourni a Karyes – lo
designa con un determinativo etnico, «dei Calabresi», facendo pensare ad un
monastero destinato ad accogliere, nella dimensione sin dalle origini panortodossa
del monachesimo aghioritico, monaci di quella nazionalità.
Nonostante l’assimilazione
dottrinale al dogma latino dei greci di Calabria – i quali, recuperati alla
giurisdizione patriarcale romana, poterono mantenere, in zone ristrette e
peraltro in via di costante restringimento, la propria identità rituale, distaccata
però dall’effettiva appartenenza ecclesiale –, è indubbio che a Costantinopoli,
e pertanto anche nell’area metropolitana, alla quale afferisce il Monte Athos,
si sia continuato, ancora per un certo periodo, a considerarli parte integrante
dell’ecumene ortodossa. Ce lo attesta l’Opusculum contra Francos, falsamente
attribuito al grande Fozio, ma in realtà posteriore alla contesa sugli azzimi
esplosa nel 1054. Vi si afferma che, mentre il papa di Roma e gli altri cristiani
d’Occidente «sono da molto tempo fuori della Chiesa ed estranei alle tradizioni
evangeliche ed apostoliche, ... i Calabresi soli sono, sin dall’inizio, cristiani
ortodossi». Anteriore al 1112, quando viene citato da Giovanni di Claudiopoli
e da Niceta Seides,; questo passo verrà fedelmente ripreso, dopo il 1204,
da Costantino Stilbes – cioè il metropolita Cirillo di Cizico – nel suo Memoriale
contro i Latini.
Questa percezione di una ortodossia
dei Calabresi, ancor viva nel XII secolo nel centro stesso dell’Ortodossia,
appare già offuscata nel XIV, nel sentire almeno di s. Gregorio Palamas, forse
anche a causa dell’esperienza personale di un ellenismo non più ortodosso,
da lui avuta nell’aspra polemica con Barlaam di Seminara. Ai suoi occhi la
calabresità non è più sentita come una garanzia di ortodossia dottrinale:
un calabrese come Niceforo, anche se ellenofono, è italo, cioè afferente all’Occidente
cristiano, e, in quanto tale kakodoxo, estraneo alla retta dottrina.
Alla fine del XVIII secolo poi, sotto la penna di s. Nicodemo l’Aghiorita,
anche l’ellenofonia della Calabria – del resto già da tempo estinta – è caduta
nell’oblio più totale e pertanto un italo-greco, a suo tempo ortodosso quanto
al rito ma sostanzialmente cattolico quanto al dogma, viene sentito e presentato
semplicemente come un latino. Il glorioso Occidente dei Romei, con i suoi
apporti culturali all’ellenismo medioevale e, soprattutto, con la sua originale
esperienza monacale – ben conosciuta in Oriente nelle persone dei due Elia,
di s. Fantino, di s. Nilo e di s. Bartolomeo –, non è più nella mente e nel
cuore della tradizione della Grande Chiesa, autorevolmente espressa, in due
momenti successivi di riscoperta della propria identità, dal Palamas e dall’Aghiorita.
Enrico Morini
Alma Mater Studiorum. Università di Bologna