La visione di Dio nelle Vite dei santi italo-greci
l
monachesimo di un periodo intermedio nella vita religiosa della Chiesa ortodossa
orientale – che si estende, per convenzione storiografica, dal trionfo dell’ortodossia
iconofila (843) all’inizio dell’eta dei Comneni (1081) e che riceve percio l’epiteto
di monachesimo medio-bizantino – e profondamente segnato dalla duplice paternita
di s. Basilio e di s. Teodoro Studita: dopo il dilagare di un eremitismo anarcoide,
al tempo dell’iconomachia, esso conosce infatti una ripresa dello spirito basiliano
mediata pero in modo creativo dal rinnovamento studita. Tutto questo ha comportato
una concezione della vita monastica piu ascetico-liturgica, in quanto incentrata
su lavoro e preghiera, che non teologico-antropologica. In alternativa cioe
ad una linea di pensiero, che vedeva nelle forme piu estreme di mortificazione
– a scapito della stessa dinamica liturgico-sacramentale – la chiave di accesso
alla perfezione spirituale, la concezione basiliano-studita pone l'esperienza
liturgica come terzo pilastro, accanto all'obbedienza ed alla laboriosita, della
professione monastica. In sintonia perfetta con questa sensibilita appare la
definizione della vita monastica formulata da s. Nilo di Rossano, il Giovane:
«Il monaco e un angelo e la sua opera e offerta dell'olio di pace e del sacrificio
di lode», e questo aforisma niliano trova puntuale riscontro nella pressoche
contemporanea presentazione – da parte di s. Atanasio l’Athonita nel suo typikon
– della vita monastica come una vocazione angelica, per il comune compito, degli
angeli e dei monaci, di lodare e glorificare Dio. In entrambe le definizioni
la metafora isoangelica, consueta nel lessico monastico, viene infatti esplicitamente
riferita non gia all'anticipazione in terra della condizione escatologica dell'uomo,
bensi all'assimilazione del ceto monacale ai cori angelici nel cantare la gloria
divina.
Tale constatazione puo forse spiegare perche, nell’agiografia monastica italo-greca,
la percezione sensibile della divina presenza – nei piu tardivi termini palamiti
potremmo dire la visione di Dio nelle sue energie increate – e riservata all’anziano
– o e concessa a dei testimoni privilegiati, a glorificazione di Dio e del santo
– primariamente in un contesto liturgico, ora nel prodigioso svelarsi dell’invisibile
efficacia dell’epiclesi, ora nell’unione trasformante della comunione ai divini
Misteri. Entrambe le tipologie sono presenti in un celebre passo della Vita
di s. Elia di Reggio, lo Speleota, dove si legge: «E tu che cosa vedi nella
divina Liturgia, quando offri le cose sante? – chiede Elia da Enna, il Giovane,
ad Arsenio, l'anziano dello Speleota, che si affliggeva per non avere ottenuto
il carisma profetico – Ha reso testimonianza su di lui il grande Elia (cioe
Elia il Giovane) – continua l'agiografo – che il divino Arsenio celebrava la
liturgia incruenta stando in mezzo al fuoco spirituale e percio da esso si comunicava.
Ora il divino Arsenio era solito vedere la grazia dello Spirito Santo come un
fuoco che avvolgeva l'altare mentre offriva i doni divini, dal momento dell'ingresso
della divina Liturgia (cioe dal grande Åéóïäïò) fino alla sua conclusione».
Quest’ultimo motivo, gia presente alla fine del VII secolo in un racconto edificante
attribuito ad Anastasio il Sinaita e al quale sembra alludere nel secolo successivo
il commentario liturgico attribuito al patriarca Germano, quando accenna alla
«divina öùôïöÜíåéá» da parte del sacerdote
al momento dell’epiclesi, ha pero il suo archetipo narrativo nel VI secolo,
nella Vita del grande Eutimio di Cirillo di Scitopoli. Si legge in essa – come
del resto si vede nell’affresco di scuola macedone, forse dello stesso Manuele
Panselinos, nel ðáñåêêëÞóéïí di S. Eutimio
nella basilica di S. Demetrio a Tessalonica – che, mentre il grande ieromonaco
palestinese celebrava la divina Liturgia assistito dallo ierodiacono Domiziano,
un fuoco scese visibilmente dal cielo al momento del Trisagion, sotto gli occhi
esterefatti del saraceno Terebone e dell’eunuco Gabriele, e, distendendosi sopra
l’altare, copri a guisa di telo i due celebranti. Si tratta di un áÞñ
immateriale, inveramento di quello tessuto e ricamato che viene durante il Credo
simbolicamente agitato sui Doni da consacrare per esprimere simbolicamente la
discesa su di essi della grazia dello Spirito Santo. In un episodio simile,
narrato nel VII secolo da Giovanni Mosco e da Sofronio – che nel loro Prato
per ben tre volte riportano casi di percezione della venuta e della presenza
dello Spirito sulle oblate, lasciando imprecisate le modalita della manifestazione
–, e precisamente in quello relativo alla celebrazione liturgica del vescovo
della fantomatica Romilla, l’apparizione dello Spirito e accompagnata dal prodigioso
sollevarsi di un velo, che rimane sospeso in aria sull’altare a coprire il vescovo
celebrante, il papa Agatone ed i diaconi officianti, per ben tre ore. Il termine
qui usato ( êáôáðÝôáóìá ) potrebbe designare
la tenda pendente dal ciborio, che veniva distesa proprio all'inizio dell'anafora,
sennonche gia il commentario liturgico dello Pseudo-Germano usa il termine êáôáðÝôáóìá
come sinonimo di áÞñ, il piu ampio dei tre
veli liturgici del grande Ingresso, deposto a coprire sull'altare i doni da
consacrare. Del resto sembra che il gesto prescritto nella liturgia pontificale
ai sacerdoti concelebranti di tenerlo sollevato, alla recita del Simbolo di
fede, e di agitarlo sul capo del vescovo chino sulle oblate, derivi proprio
dall'antica consuetudine di far ricadere in quel momento sui celebranti il velo
del ciborio.
La prima comparsa di questo motivo nell’agiografia italo-greca era nella Vita
di s. Elia il Giovane, dove il vescovo Pantaleone, mentre celebra la divina
Liturgia, vede una colomba dall’aspetto splendente volare su di lui e posarsi
sul suo capo, con una ripresa dell’immagine dello Spirito evangelicamente attestata
nella teofania al fiume Giordano. La tipologia teofanica del volatile era presente
anche in un apoftegma pubblicato dal Nau, relativo alle prodigiose celebrazioni
eucaristiche degli ieromonaci di Scete: l’animale che essi vedevano planare
sulle oblate era pero un aquila, altra immagine biblica evocante la presenza
di Dio che conduce il suo popolo fuori dall’Egitto e lo reintroduce dopo l’esilio
nella terra promessa. A sua volta la Vita romana di s. Gregorio d’Agrigento
– scritta dall’igumeno del monastero di S. Saba sull’Aventino –, che parla genericamente
di un adombramento dello Spirito alla celebrazione liturgica del santo, reso
visibile ai Padri della sinodo romana convocata per giudicarlo, richiama semanticamente
il passo lucano dell’Annunciazione.
Il passo citato del âßïò dello Speleota riprende
invece, in una piu stretta dipendenza dall'archetipo cirilliano – consueta del
resto in questo testo –, l'altra immagine neotestamentaria dello Spirito Santo,
quella del fuoco. La tipologia biblica del fuoco come percezione sensibile della
presenza dello Spirito – autorevolmente rappresentata dall'endiadi evangelica
«Spirito Santo e fuoco» e dalla teofania della Pentecoste lucana – e liturgicamente
attestata, in relazione all'Eucaristia, nell'epiclesi della liturgia di s. Giacomo,
dove si invoca lo Spirito «che e disceso sui santi apostoli sotto forma di lingue
di fuoco nel cenacolo della santa e gloriosa Sion, il giorno della santa Pentecoste».
A sua volta la preghiera epiclettica tramandata dalla Didascalia degli Apostoli
lascia presupporre un'ulteriore giustificazione del ricorso all'immagine del
fuoco per esprimere l'effusione dello Spirito sulle oblate: come il pane eucaristico,
compenetrato dal calore del fuoco, si era cotto, cosi ora, in virtu del fuoco
dello Spirito, che ugualmente lo compenetra, esso viene trasformato nel Corpo
del Signore. Tramite privilegiato per l'estensione all'ambito liturgico della
simbolica biblica Spirito-fuoco e molto probabilmente l'autorita del dialogo
crisostomico Sul sacerdozio, che stabilisce una relazione analogica tra il fuoco
immateriale, che in numerosi passi veterotestamentari discende dal cielo a consumare
i sacrifici in segno di gradimento divino – il dottore antiocheno cita esplicitamente
il sacrificio del profeta Elia sul Monte Carmelo –, ed il fuoco dello Spirito
che, invocato dal sacerdote, trasforma i santi Doni, sacrificio della nuova
alleanza. La tipologia biblica applicata all'epiclesi eucaristica si arricchisce
cosi ulteriormente, componendo l'immagine neotestamentaria del fuoco pentecostale
con quella veterotestamentaria del fuoco sacrificale, funzionale tra l'altro
ad esprimere il carattere sacrificale dell'Eucaristia.
La teofania pneumatica nella forma di fuoco ritornera, dopo piu di un secolo,
in un altro âßïò italo-greco, quello di s.
Bartolomeo da Simeri, dove una colonna di fuoco ( óôýëïò
ðõñüò ), alta sino al cielo, compare dietro al santo che celebra
la divina Liturgia nella chiesa messinese di s. Nicola della Punta – forse la
punta del promontorio del faro, dove poi sarebbe sorta la celebre mandra del
Salvatore –, nell’istante in cui egli solleva il mistico Corpo, che e precisamente
– stando agli antichi commentari liturgici, come quelli di s. Massimo il Confessore,
dello Pseudo-Germano e di Teodoro d’Andida, – il momento in cui il celebrante
proclama, prima della Comunione: «Le Cose sante ai santi». Quest’altra immagine
ignea attinge sempre alla simbolica biblica della presenza divina, assimilandosi
alla colonna di fuoco che manifesta la presenza del Dio d’Israele alla guida
del suo popolo dall’Egitto alla terra promessa. Se la manifestazione di Dio
come fuoco, sperimentata nei sacrifici dell’antica alleanza e nell’effusione
dello Spirito conseguente al nuovo patto, si esprime nel tempo della Chiesa
nella trasformazione dei Doni nel Corpo e nel Sangue del Signore, allo stesso
modo la percezione della divina presenza da parte dell’uomo in procinto di essere
deificato ha il suo culmine nello spazio liturgico, dove Dio si rende presente
in modo sovrasostanziale. Scrive s. Simeone il Nuovo Teologo: «Fratelli e padri,
Dio e fuoco e cosi e chiamato da tutta la Scrittura divinamente ispirata, e
l’anima di ciascuno di noi e una lampada. Come dunque una lampada, per quanto
piena d’olio, … e completamente oscura finche non partecipi del fuoco e venga
accesa, cosi avviene anche per l’anima. Per quanto in apparenza sia ornata di
tutte le virtu, se non ha partecipato del fuoco – se cioe non ha partecipato
dell’essenza e della luce divina – e ancora spenta e oscura». Ora questa partecipazione
al fuoco delle divine energie deificanti avviene, nell’esperienza dei Padri
italo-greci, nell’esperienza liturgica e pertanto la loro visione di Dio e principalmente
un’estasi liturgica. E questo il luogo privilegiato dove – come insegna il primo
stichiron anastasimon delle lodi domenicali del primo tono plagale – le realta
divine «si rendono manifeste a quanti con fede adorano il mistero che celebrano».
Il passaggio immediatamente successivo – come del resto risulta dal passo gia
citato della Vita dello Speleota – e la partecipazione, ancora piu intima e
personale, a questa esperienza tramite la comunione ai divini Misteri: il grande
Arsenio direttamente da quel fuoco si comunicava. L’immagine di questa assunzione
come dal fuoco della divina perla del Corpo del Signore significa che la partecipazione
ai divini Miseri comunica, oltre alla luce della verita, proprio la grazia di
quello Spirito, che divinamente trasforma, come si canta subito dopo la comunione
dei fedeli: «Abbiamo ricevuto lo Spirito sovraceleste». Piu avanti un altro
passo del medesimo âßïò vuole esprimere sostanzialmente
lo stesso concetto, quando riferisce che s. Elia si comunicava ai divini Misteri
come Isaia dal Serafino, assumendo cioe la divina perla – per la presenza in
essa del Cristo nella pienezza della sua Divinita – come un carbone ardente.
L’immagine era gia familiare, in quanto divulgata dal trattato sulla fede ortodossa
di s. Giovanni Damasceno, che vede proprio nella teofania iniziale, con cui
si apre il libro di questo profeta, una prefigurazione della Comunione, da lui
definita «divino carbone», «fuoco del nostro desiderio». Del resto un notissimo
testo poetico del X secolo, attribuito a Simeone Magistros il Metafrasta, prescrive
di prepararsi alla santa Comunione pregando cosi: «O tu che mi hai plasmato,
non consumarmi con questa unione, perche sei fuoco che brucia gli indegni!...ma
penetra...in tutte le articolazioni, nei reni, nel cuore. Brucia le spine di
tutte le mie colpe!». Nel contesto tuttavia della descrizione l’estasi dello
Speleota si dilata, estendendosi a tutta la celebrazione liturgica, nel complesso
della sua durata, e trasferendosi da chi la celebra a chi vi partecipa – s.
Elia infatti non era ieromonaco –; il passo in questione ci informa infatti
che egli «nel corso della divina liturgia, mentre stava in piedi, era completamente
fuori di se per la contemplazione ( èåùñßá )
ed era a tal punto smarrito che, dall’inizio alla fine di essa, i suoi occhi
si voltavano all’indietro».
L’estasi indotta dalla celebrazione liturgica o dal momento unitivo della santa
comunione non esaurisce tuttavia la dimensione contemplativa e divinizzante
della vita cristiana, l’endiadi èåùñßá // èÝùóéò,
com’e agiograficamente testimoniata nell’esperienza spirituale dei santi italo-greci.
Ad esempio l’energia divina deificante compare direttamente sotto forma di fuoco,
che compenetra tutto l’essere umano assimilandolo a se nel momento della preghiera
personale, come gia si dice – nella piu antica delle agiografie monastiche italo-greche
– di s. Elia il Giovane, che, una volta sorpreso in orazione, appare tutto come
fuoco ( ïëïò ùò ðõñ ). Questo santo poi e
accompagnato per tutta la sua esistenza da un angelo-guida, che gli appare all’inizio
sotto le sembianze dell’apostolo Anania, ma che subito viene presentato, sulla
base della pretesa etimologia di questo nome, come un dono della grazia di Dio
o, piuttosto – dice il testo –, come la stessa grazia divina, pertanto ipostatizzata.
In tal caso, come nell’ermenutica veterotestamentaria la formula “Angelo del
Signore” sembra oltrepassare i limiti della creatura celeste per designare un
modo di manifestarsi di un’ipostasi divina, cosi anche nel nostro testo questa
figura sembra trapassare dalla semplice percezione di un essere angelico alla
comunicazione di un’energia divina sensibile increata, per esprimersi con la
successiva terminologia esicastica. In altri termini, coincidenti pero nei contenuti,
si esprimera l’agiografo di s. Bartolomeo da Simeri, presentando il santo intento
a purificare la vista dell’intelletto (ôü ôçò äéáíïßáò
ïðôéêüí ) per divenire limpido specchio (
êÜôïðôñüí áõôïäéáöáíÝò ) dello Spirito Santo.
Questa partecipazione alla vita divina – che, massimamente operante all’altare
e dall’altare, non si esaurisce pero nella liturgia – conosce, anche nell’esperienza
dei santi italo-greci, una èåùñßá – punto
di arrivo di una ðñÜîéò consistente in una
salita attraverso una scala delle virtu che elimina, passo dopo passo, le passioni
corrispondenti –, cioe una forma di contemplazione che porta ugualmente il soggetto
fuori di se. Sono esemplari al riguardo gli accenni dei rispettivi agiografi
all’estasi dei due piu grandi asceti del Merkourion, i contemporanei – alla
fine del X secolo – ed amici Nilo e Fantino. Il primo, come uscendo dai sensi,
non percepisce piu la presenza degli astanti e, dialogando con cio che lui solo
vede, proferisce le risposte dialogate della divina Liturgia o isolati versetti
di salmi. Del secondo si dice che, «ricolmo di Spirito santo con incontenibile
avidita non era mai sazio di tale dolcissima partecipazione (ìÝôåîéò),
ma quanto piu veniva a parte di quel dolce cibo e di quel nettare celeste, tanto
piu si slanciava a volo verso l’oggetto del suo desiderio e voleva godere della
piacevole contemplazione (êáëÞ èåùñßá) di
Dio». Questo Fantino, il Giovane, esce di se, in un modo che trascende le leggi
naturali, rimanendo senza respiro, con gli occhi e le mani al cielo, dal mattino
all’undecima ora, cioe le cinque della sera, ed in questa occasione, temporaneamente
fuori dal corpo, passando illeso attraverso le dogane demoniache, e condotto
a vedere il luogo di supplizio dei dannati ed a contemplare la splendida dimora
dei beati. Questo rapimento estatico al terzo cielo, passando attraverso gli
spietati gabellieri, era gia stato anticipato, nel monachesimo italo-greco,
dallo Speleota, che una volta era stato sorpreso da un monaco in questa «tremenda
contemplazione (öïâåñÜ èåùñßá) delle bellezze
di lassu», con «l’aspetto del suo volto mutato nella fisionomia e reso luminoso
dalla visione (èÝá)», e che anzi confessa
di esserne continuamente rapito nel corso della sua preghiera personale e della
meditazione solitaria. Si tratta della trasfigurazione indotta nella fisicita
dell’uomo dal processo di divinizzazione (il caso piu celebre e quello di s.
Serafino di Sarov, testimoniato da Motovilov). Non diversamente si legge nella
Vita di s. Nilo che la grazia divina rifulgeva sul volto del grande Fantino;
dello stesso Nilo poi si dira che nutriva la mente con contemplazioni divine
e sublimi (èåÜñåóôïé êáß ìåãáëïðñåðç åííïéáé).
Un versetto salmico soprattutto viene con assoluta frequenza, nei testi agiografici
italo-greci, posto in correlazione con l’esperienza estatica, con il progressivo
elevarsi, passo dopo passo di virtu in virtu, alla contemplazione delle realta
divine: si tratta della seconda parte del versetto 6 del salmo 83, dove si parla
delle ascensioni (áíáâÜóåéò) nelle quali
si impegna l’orante, quasi innalzando nel proprio cuore questa mistica scala,
che lo porta alla visione di Dio. Le piu conosciute attestazioni del ricorso
a questa esegesi del passo in questione si trovano, nel V secolo, nella Storia
“Philotheos” del vescovo Teodoreto di Ciro, dove questo movimento interiore
e posto in stretto rapporto con la contemplazione di Dio, la èåßá
èåùñßá, e nella Vita di s. Saba il Santificato, di Cirillo di Scitopoli,
dove precisamente in tal modo il santo si trasmuta di gloria in gloria. Per
questo, ad esempio nella Vita di s. Filareto di Seminara, il Giovane – sin dall’inizio
della sua ascesi tutto teso a vedere Dio, oggetto del suo desiderio («éäïéìïé
ôá ðïèïýìåíá», chiede infatti nella sua preghiera) –, tale ascensione immobile
e tutta interiore (èåßá áíÜâáóéò) diventa in due passi sinonimo di
contemplazione. A sua volta, nella figura dell’asceta Cristoforo di Collesano,
degno padre di s. Saba il Giovane, tale piu che quotidiana – perche postulata
anche di ora in ora – salita a Dio nel proprio cuore, produce – in una piu evidente
dipendenza dell’agiografo, il patriarca Oreste di Gerusalemme, dal passo cirilliano
– la paolina metamorfosi di gloria in gloria.
Un’ulteriore ripresa di questa immagine davidica delle divine ascensioni si
riscontra nella Vita di s. Nicodemo di Kellarana, in un contesto che esprime
in modo esemplarmente chiaro la capacita divinizzante di queste risalite dal
proprio cuore a Dio: tramite la partecipazione ad esse (äéü ôç ìåôÝîåé),
afferma l’agiografo, il santo divenne dio per grazia (
êáôÜ ÷Üñéí èåüò ï ðáíüëâéïò ãÝãïíåí).
L’agiografia monastica italo-greca??pervenutaci in misura relativamente abbondante
– nonostante la sua perifericita – rispetto ad altre aree dell’ecumene “bizantina”,
non poteva lasciarci un testo piu esplicito di questo, tramite la penna di un
dotto monaco di nome Nilo – attivo tra la seconda meta dall’XI secolo e l’inizio
del successivo –, in ordine al vertiginoso destino dell’uomo di divenire dio
per grazia, appunto èåüò êáôÜ ÷Üñéí
.
Enrico Morini
Alma Mater Studiorum. Universita di Bologna