IL MONACHESIMO LATINO
IN SICILIA
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opinione comune che in Sicilia – come anche nell’estremo sud della
Penisola, la Sicilia continentale - sia esistito in età pre-normanna
un monachesimo “latino” e persino ordinato secondo i dettami della
Regola benedettina. “Latino”, beninteso, come sinonimo di “cattolico”,
e “cattolico” nel senso che si ha nel lessico tridentino. E’
un sofisma, posto come messaggio subliminale per veicolare il convincimento
che la stupenda epopea del monachesimo italo-greco è da ridurre a insignificante
parentesi nella millenaria storia d’una Sicilia da presumere sempre “latina”.
E’ un ancile piovuto dal cielo della Controriforma: qualsiasi ricerca
bibliografica a proposito non va oltre l’epoca degli scontri tra Papato
e Spagna, sullo sfondo della Sicilia. E’ un vecchio luogo comune, rinverdito
dall’apologetica storiografia degli Studi Orientali promossi – a
ben noti fini unionisti – durante il lungo pontificato di Leone XIII (1878
– 1903). L’operazione tesa ad accreditare l’esistenza in Sicilia
di monasteri latini già prima dei Normanni ha raggiunto pienamente il
suo obiettivo , nonostante sia d’una ingenuità disarmante come
si nota percorrendo a ritroso la genesi di una vulgata diffusa e funzionale
a dettami da Teologia storica.
Il 4 agosto 1588, nel corso di scavi a Messina, gli operai s’imbatterono
in un macabro ritrovamento non insolito in Sicilia: una sepoltura comune con
più di trenta cadaveri. Al giorno d’oggi i professionisti dell’antimafia
avrebbero detto la loro; all’epoca i Gesuiti gridarono al miracolo, promuovendo
quei miseri resti a “reliquie” dei santi Placido, Eutiche o Eutichio
e compagni. Mancando prove, si ricorse - evidentemente in Sicilia i mali della
Giustizia sono di vecchia data – a testimonianze de relato: il Martirologio
geronimiano (un teste poco affidabile, nato in Italia Settentrionale nel 5°
secolo e, per di più, manipolato poi nella Gallia franca) che al 5 ottobre
registra in Sicilia (probabile errore per Cilicia) il martirio, in epoca ignota,
di un gruppo altrettanto ignoto (Placido, Eutiche e altri otto o trenta, dipende
dal manoscritto), martiri dei quali non esiste alcuna traccia di culto anteriore
alle febbrili attività edilizie della Messina del ‘600. Interessante
notare dove avviene la scoperta: mentre si scavano le fondamenta di una chiesa
latina; in una città dove l’elemento greco è – dopo
secolare genocidio - ancora consistente, s’insegna a cercare la propria
storia sotto la Chiesa (latina). Anche il quando della scoperta delle “reliquie”
è eloquente: appena papa Paolo IV perde la guerra mossa allo spagnolo
re di Napoli Filippo II, i Gesuiti tentano di recuperare lo svantaggio facendo
muovere sullo scacchiere siciliano santi presunti e presunte reliquie. La siciliana
“Opera dei pupi” ha nobili e antiche origini.
In precedenza, la notizia del Martirologio geronimiano non era sfuggita all’instancabile
falsario Pietro di Monte Cassino (m. 1159), che la unì alle affermazioni
di Leone di Ostia. Questi, scrivendo una fantasiosa cronaca del monastero cassinese
su commissione dell’abate Oderiso (1098-1105), favoleggiò che san
Benedetto inviò in Sicilia il suo discepolo Placido: voleva così
dare una giustificazione storica all’arrivo in Italia Meridionale di uno
sciame di monaci benedettini chiamati per compiere la riduzione della popolazione
locale all’obbedienza politico-religiosa dei Franchi, nel rispetto dei
patti firmati nel 1059 a Melfi dal savoiardo Gérard de Chevronne (papa
Nicola II) e dal normanno Roberto il Guiscardo (patti verosimilmente dettati
da Ildebrando di Soana, il futuro Gregorio VII, e da Umberto di Silva Candida:
d’entrambi, si sa quanto amassero i Greci).
Pietro di Monte Cassino diede corpo a una pia fiaba (ricalcando quella, dell’8°\9°
secolo, di un discepolo di Benedetto – Mauro - presunto evangelizzatore
della Gallia), secondo la quale Placido sarebbe stato inviato da san Benedetto
in Sicilia per evangelizzare l’Isola . Nel 541, dopo aver fondato diversi
monasteri, Placido a Messina subisce il martirio per mano di Musulmani (circa
50 anni prima che nascesse Maometto), precisamente Musulmani spagnoli (circa
200 anni prima che gli Arabi mettessero piede in Spagna), guidati da un certo
Mamuclà (un mammalucco?). Gordiano (il padre di Gregorio Magno?) , unico
scampato al macello, ripara a Costantinopoli e consegna la Passio di Placido
all’imperatore Giustiniano. E con questo, Pietro di Monte Cassino si metteva
al sicuro: se qualcuno fosse andato sino a Bisanzio per compiere ricerche archivistiche
e avesse trovato un bel niente, sarebbe tornato indietro convinto che i perfidi
Greci avevano occultato o distrutto una così mirabile prova dell’originaria
“latinità” della Sicilia.
La favola di Placido e compagni non incontrò alcun credito finché
– insieme ai cadaveri messinesi – non fu riesumata nel XVI secolo
dai Gesuiti: nonostante l’irridente M. Amari , è giunta indenne
sino ai nostri giorni. Se, infatti, è rigettata con fermezza proprio
dai più diretti interessati (i Benedettini ), essa è consacrata
nel nuovo Proprio edito a cura della Conferenza Episcopale Siciliana, e non
è neppure posta in discussione da quanti si occupano di storia dell’Italia
Meridionale, a causa d’una qualche pigrizia mentale che induce i cultori
di memorie locali a copiarsi e citarsi tra loro, quasi mai controllando le fonti
oppure trattandole con disinvoltura. La presunta Passio Placidi risponde anche
alle esigenze storiografiche soggiacenti agli Studi Bizantini promossi dal pontificato
leonino e al disegno d’accreditare la stravagante tesi che le Chiese dell’Italia
Meridionale fossero, sin dalle origini, di Rito latino.
Ma dopo un Valla – anzi, dopo Cusano – un Pietro Diacono, anche
se mai ripudiato, non è più presentabile: di solito, si ricorre
a un testimone più antico e solo per questo ritenuto veritiero, Gregorio
di Tours (m. 594). Egli è il primo che parla di monasteri in Sicilia,
e attribuisce a Gregorio Magno la nascita del monachesimo in Sicilia, di un
monachesimo – beninteso – latino: è diventato così
naturale riferirsi agli scritti dell’illustre pontefice per ricostruire
la storia della Sicilia non solo nei secoli 5°\6° ma, spericolatamente,
in quasi tutto il primo Millennio dell’Era cristiana.
Assunti a principale fonte per la storia della Sicilia prima del 6* secolo,
gli scritti attribuiti a Gregorio I, tuttavia creano più problemi di
quanti ne risolvano. L’illustre pontefice spesso è l’unico
teste di nomi, toponimi e episodi altrimenti sconosciuti , o dell’esistenza
nell’Isola di monasteri “latini” prima ancora dell’invasione
normanna, o di fatti alquanto bizzarri, quale l’unione dell’ignota
diocesi di Carini (presso Palermo?) a Reggio Calabria. Persino dell’esistenza
d’una città, Miria, della quale non esiste alcun’altra testimonianza
storica o archeologica: quasi Atlantide, si dice sorgesse “in un luogo
imprecisato tra il Golfo di Squillace e quello di S. Eufemia” . Forse
perché uniche a sostegno delle proprie tesi sull’esistenza di un
monachesimo latino in Sicilia, le fonti gregoriane sono sempre accettate fideisticamente,
senza mai guardare alla biografia di Gregorio, il piccolissimo uomo che la storiografia
s’incaricherà di chiamare Grande.
Gregorio nacque attorno al 540. Si ritiene che fosse d’illustre famiglia,
ma non si sa se ci si possa fidare di quanto racconta a proposito Gregorio di
Tours, cortigiano e fantasioso cantastorie dei Franchi ; di certo apparteneva
a famiglia benestante, con casa dalle parti del Colosseo. Non ci sono testimonianze
certe sul padre, Gordiano, come non ce ne sono sulla madre, Silvia, proclamata
santa (per volere del cardinale Cesare Baronio e a fini dichiaratamente apologetici)
durante l’Anno Santo del 1600, trionfo del Cattolicesimo tridentino.
Gregorio studiò poco e male: il re dei Goti Baduilla (Totila, vale a
dire immortale), trovando l’Italia sguarnita perché l’Esercito
Romano era in guerra contro i Persiani, conquistò Roma Antica e la fece
evacuare, deciso a raderla al suolo. Fu solo dopo che un Corpo d’Armata
inviato da Costantinopoli, Nuova Roma, liberò l’Italia (552\3),
e grazie al riordinamento amministrativo voluto dall’imperatore Giustiniano,
che Gregorio riuscì a combinare qualcosa. Però senza fare grandi
progressi: restò digiuno di greco e per studiare Sacra Scrittura, Padri
della Chiesa e Concili ecumenici s’arrangiò con traduzioni (non
sempre esemplari). Non andava bene più di tanto, per così dire,
in latino: per esempio, le prediche di Gregorio non giungono alla nobiltà
di linguaggio di un papa Leone I.
In ogni modo, Gregorio fece carriera: alle dipendenze dell’Esarca che,
da Ravenna, reggeva l’Italia in nome dell’Imperatore, verso il 572\3
diventò Pretore. Non Prefetto, come si afferma di solito; più
o meno, “Assessore all’Annona” (d’una città alla
fame e costretta pure a pagare pesanti balzelli ai barbari).
Gregorio era spesso a letto, per giorni e settimane, tra dolori lancinanti e
frequenti crisi: non si sposò e, come diremmo oggi, si fece “monaco
di casa”. Ordinato diacono (da Benedetto I o Pelagio II), Gregorio fu
inviato (579) a Costantinopoli col principale incarico d’ottenere aiuti
militari ed economici dall’Imperatore e dal Patriarca Ecumenico. Lo accompagnava
il dotto Massimiano, poi vescovo di Siracusa, verosimilmente in veste d’interprete:
forse Gregorio non capiva bene il greco né se la cavava con l’aulico
latino che all’epoca si usava nella Nuova Roma sorta sui sette colli che
si affacciano sul Bosforo.
Nel 585\6 Gregorio fece ritorno a Roma, giusto in tempo per assistere alla guerra
tra Romani e Longobardi. Alle devastazioni di questi si aggiunsero gli ammutinamenti
e le ruberie dei soldati… A Roma confluirono quelli che avevano perduto
ogni loro avere e speravano d’aver colà salva almeno la vita. Ma
l’accresciuta popolazione fece presto a sentire l’insufficienza
del vettovagliamento… Piogge torrenziali prolungate provocarono lo straripamento
dei fiumi, interruzione delle comunicazioni, inondazioni devastatrici di vasti
territori e persino di città. Tra le città inondate vi fu anche
Roma, su cui il Tevere riversò grandi masse d’acqua che fecero
crollare molti antichi edifici e, cosa che in quel momento era particolarmente
grave, distrussero tutti i depositi di grano. All’inondazione seguì
la peste bubbonica, che fece moltissime vittime.
Come se non bastasse, gran parte delle Chiese dell’Occidente aveva rotto
con l’antica Roma, accusata d’eresia per la faccenda dei Tre Capitoli
e che, quindi, poteva contare – e neppure tanto - solo sulle neonate Chiese
transalpine, semibarbare e semiariane (Roma con l’Italia Meridionale non
aveva più un granché da spartire almeno dal 451, vale a dire dal
Concilio di Calcedonia).
Di peste bubbonica morì anche il papa Pelagio II e, dovendosi procedere
alla scelta di un successore, clero e popolo mise gli occhi addosso a Gregorio.
Invano questi supplicò il Patriarca Ecumenico perché fosse sollevato
dal peso dell’episcopato: l’imperatore Maurizio ratificò
l’elezione e, sia pure dopo molti mesi, spedì da Costantinopoli
l’autorizzazione a procedere alla consacrazione episcopale. Il 3 settembre
590 Gregorio diventò papa, dedicando tutte le sue poche forze a risollevare
in Occidente le sorti della civiltà romana e cristiana.
Modesta – o proprio nulla - è, tuttavia, la sua opera in campo
liturgico: furono i Franchi a diffondere nel IX secolo un Sacramentario - inviato
loro da papa Adriano (771\795) con l’assicurazione che si trattava di
un testo in uso dal tempo di Gregorio - che i Franchi ingenuamente (?) credettero
di Gregorio (e che noi, peraltro, conosciamo solo tramite una sedicente copia
dell’812). Nulla è anche l’opera del pontefice in campo musicale:
furono i soliti Franchi a creare la leggenda di un Gregorio musicologo, spacciando
per melodie antiche e autenticamente romane i loro nuovi e barbarici ritmi,
col trucco di presentarli qual “musica gregoriana”.
Anche la fama dei Dialoghi è mal riposta, suscitata come fu da papa Zaccaria
(741\52) che, credendoli di Gregorio, li fece tradurre in greco, immettendoli
quindi in circolazione nell’Impero romano proprio mentre l’Impero
romano era costretto a ritirarsi dall’Italia centrosettentrionale (nel
751\2 Istria, Veneto, Pentapoli, Ravenna, cadono per sempre in mano ai barbari).
Il libro dei Dialogi de vita et miraculis patrum italicorum, fittiziamente dedicato
a Teodolinda, bavarese sposa del re longobardo Autari, non è materiale
utilizzabile dallo storico: è una via di mezzo tra libro di devozione
e pamphlet di propaganda politica. Esso, infatti, è opera di un qualche
addetto della Curia Pontificia, un anonimo chierico (franco?) che (inizi 8°
secolo) voleva dimostrare come non solo in Sicilia, nella Grande Grecia e nelle
altre Chiese Romane, ma anche tra gli italici dell’Italia centrosettentrionale
(vale a dire: nei territori da poco conquistati dai barbari) fossero fioriti
molti santi. Di alcuni di questi, però, non c’è alcuna testimonianza
oltre quella dei Dialoghi stessi, neppure del celebre Benedetto da Norcia, ritenuto
fondatore di Monte Cassino . Per il loro contenuto favolistico e “meraviglioso”,
il libro dei Dialoghi fece subito colpo sull’animo di popoli primitivi,
quali Slavi e Anglosassoni, e la sua autorità resta indiscussa quanto
immeritata.
Il Gregorio che per qualche anno visse da monaco di casa, è stato presentato
dagli storici moderni anche in veste di fondatore di monasteri in Sicilia: è
un luogo comune che si è ormai incistato nella storiografia. Ne parla
solo il già menzionato Gregorio di Tours: un’informazione del genere,
perché mai interessò un oscuro novelliere franco, delle lontane
Gallie, ma restò ignota a qualsiasi autore coevo dell’Italia Meridionale,
dell’intera penisola italiana e dell’universo mondo? Un’informazione
del genere, come ha fatto a giungere in un batter d’occhi sin nelle Gallie,
visto che l’Historia Francorum del menestrello di Tours è stata
portata a termine nel 591? E poi: con quali monaci Gregorio fondò monasteri
se “benedettini” non ce n’erano neppure a Monte Cassino? E
con quali soldi? Gregorio avrà stornato, sia pure per nobili scopi, quanto
- elemosinato a Costantinopoli – era indispensabile alla difesa, anzi
alla quotidiana sopravvivenza di Roma? In quegli anni, lungo il Tevere si moriva
letteralmente di fame: i depositi di grano erano più vuoti d’una
tasca bucata. Più che padre amoroso e pastore provvido di Roma, Gregorio
sarebbe stato il precursore della peggiore “Cassa per il Mezzogiorno”,
un costruttore di Cattedrali nel deserto (delle quali, peraltro, nessuno sentì
parlare prima del 16° secolo, prima della creativa fantasia degli apologeti
tridentini).
Per reggere, il luogo comune che vuole Gregorio in veste d’instancabile
fondatore di monasteri, deve necessariamente sorvolare ancora su una domanda:
quando? Prima del 579, Gregorio s’arrabattava a fare carriera e combatteva
con i suoi acciacchi. Negli anni 579\86, Gregorio era a Costantinopoli. Allora,
tra il 586 e il giorno in cui chiuse gli occhi per sempre? Gregorio era - forse
- dedito alla conversione degli anglosassoni che si erano stabiliti in Britannia
e – di certo - impegnato in bazzecole quali fame, peste, carestia, inondazioni
devastatrici, interruzione delle comunicazioni, scisma dei Tre Capitoli. Non
restano dunque che gli anni della puerizia, quando di solito si gioca a fare
castelli di sabbia, non a costruire monasteri; in un’epoca in cui era
già un’impresa mettere insieme il pranzo con la cena, figurarsi
un mattone sull’altro.
Forse, per sostenere il luogo comune, ci si potrebbe riferire a qualche –
ambigua - espressione dell’Epistolario gregoriano. Purtroppo, non esiste
alcun documento pontificio originale anteriore al pontificato d’Adriano,
quindi alla fine dell’8° secolo: ogni informazione che si può
trarre da tardive copie è, quanto meno, dubbia. Poi: può anche
darsi che Gregorio abbia fatto tenere un Registro delle lettere spedite dalla
sua Cancelleria, ma esso – sempre alla fine dell’8° secolo -
“è stato smarrito” (all’italiana?) e solo in seguito
è stato “ricostruito”. Infine: quelle che si citano come
Lettere gregoriane sono copie – nient’altro che copie, e sedicenti
copie – autenticate, per così dire, ancora sul finire dell’8°
secolo e ancora per volere di papa Adriano che aveva urgenza d’allestire
uno scartafaccio da esibire ai Franchi per rivendicare alla Chiesa di Roma Antica
il possesso di quanti più terreni possibili. Per di più, a noi
non sono giunte neppure quelle sedicenti copie, ma successive copie suppostizie
che entrarono a far parte di collezioni medievali che – tramite l’uso
e l’abuso di falsi quale la famigerata Donatio Constantini – volevano
portare prove storiche e giuridiche a sostegno del Primato del Papa. Come si
vede, epoca e motivazioni più che sospette.
Un esempio, per riflettere sull’utilità del ricorso alle sedicenti
Epistole Gregoriane. La VII 23 ci fa sapere che il pontefice accolse ben tremila
sacre vergini espulse dagli invasori Longobardi, destinando al loro sostentamento
una dote annua di 80 libbre d’oro. E’ credibile che ai guerrieri
Longobardi non piacessero le donne, in particolare le vergini; è credibile
che nei soli territori invasi dai Longobardi si riuscisse a trovare tremila
vergini (l’intera Penisola forse non arrivava ai cinque milioni d’abitanti).
Il problema è sapere dove Gregorio trovasse, ogni anno, tutti quei soldi:
era il periodo più funesto per la storia di Roma, devastata da carestie
e da pestilenze che facevano presagire vicina la fine del mondo.
Tanti sembrano i “Gregorio” quanti le opere attribuite al pontefice:
il Gregorio delle Omelie è profondamente convinto – sino all’ossessione,
si direbbe – dell’imminente fine del mondo, mentre il Gregorio delle
Epistole è un tranquillo latifondista che guarda fiducioso al futuro;
un Gregorio descrive con affetto il transito della zia Tarsilla tra le braccia
di Silvia, un altro Gregorio ignora mamma e zia. Per di più, se si ha
la pazienza di leggere integralmente le Epistole gregoriane senza contentarsi
di transunti o – persino - citazioni d’ennesima mano, si scopre
che non ci si trova davanti alla Sicilia del 6° secolo. Ci si trova davanti
a quei problemi che più tardi resero indispensabile la Riforma della
cristianità franca e, ancora più tardi, giustificarono la Riforma
di Gregorio VII (1073\85) ovvero i pesanti interventi di circoli monastici franchi
sulle Chiese della romanità occidentale. E’ il caso, per esempio,
del pellegrinaggio a Roma che, secondo l’Epistolario Gregoriano, i vescovi
erano tenuti a compiere ogni tre anni, sfidando impavidi piogge torrenziali,
straripamenti di fiumi, inondazioni devastatrici, interruzione delle comunicazioni.
E’ un grossolano anacronismo: l’obbligo della Visita ad limina appare
solo al tempo di Pasquale II (1099\1118) per umiliare il potere dei metropoliti,
e fu esteso a tutti i vescovi solo a partire dal 15° secolo. Altrettanto
anacronistico è, in Ep IX, 208 e XI, 10, il riferimento all’iconoclasmo;
come anacronistica e grottesca è la soluzione escogitata (Ep IV, 26)
per convertire i contadini di Calabria e Sicilia che erano ancora (nel 6°
secolo?) pagani: aumentare loro le tasse (in Sardegna, peggio: sbattere tutti
in galera, e torturarli fin quando non avranno abbracciato il cristianesimo).
A volere ammettere, per assurdo, che ci troviamo davanti a documenti autentici,
dovremmo però dire: per uno strano scherzo della storia si sono smarrite
tutte le lettere spedite a Roma; si sono smarriti tutti gli originali spediti
da Roma come risposta; ma si sono conservate le minute, anche se esse sono le
prime che solitamente – per loro natura – finiscono, per così
dire, al macero. Piogge torrenziali, straripamenti dei fiumi, inondazioni devastatrici
di vasti territori e persino di città, interruzione delle comunicazioni,
non avrebbero minimamente rallentato la frenetica attività epistolare
di Gregorio, che – così – sembra essere stato un inguaribile
grafomane? Oltre che a imperatori e re, patriarchi e vescovi dell’universo
mondo, Gregorio avrebbe trovato il tempo di scrivere anche a una cameriera (Ep
VII, 22). Su Roma il Tevere riversò grandi masse di acqua che fecero
crollare molti antichi edifici e, cosa che in quel momento era particolarmente
grave, distrussero tutti i depositi di grano ma lasciarono intatto l’archivio
pontificio?
Accettiamo pure questo straordinario prodigio, e crediamo per fede che le Epistole
gregoriane abbiano avuto sorte più felice persino dei Vangeli: resta
in piedi il problema della loro veridicità. Qualsiasi manuale di Diplomatica
Pontificia avverte, infatti, che molti pretesi documenti potrebbero essere solo
esercitazioni scolastiche: nient’altro che “temi” assegnati
ai candidati alla Cancelleria o “facsimile”, senza alcun riferimento
a persone e fatti reali; il buon senso, poi, invita a riflettere che la confezione
di un documento non ne comporta sempre la spedizione e che alla spedizione di
un documento non sempre segue automaticamente che esso sia stato ricevuto e
– cosa più importante – recepito.
In conclusione, l’Epistolario gregoriano potrebbe essere utilizzato per
ricostruire la storia della Sicilia e dell’Italia Meridionale, ma con
estrema prudenza: c’è da chiedersi, per esempio, se veramente ci
sia bisogno di sdoppiare il san Gregorio Taumaturgo in due personaggi distinti,
uno (presunto latino) che sarebbe vissuto al tempo di Gregorio Magno e uno (il
greco autore del Commento all’Ecclesiastico) vissuto molto più
tardi. Lo sdoppiamento forse è stato dettato non tanto per superare qualche
difficoltà cronologica, quanto dalla difficoltà d’ammettere
l’esistenza di un vescovo greco in una Sicilia che, a tutti i costi, si
vuole fosse “latina”. Le difficoltà cronologiche nascono,
infatti, quando si vuole rapportare la Vita di san Gregorio il Taumaturgo alle
Pseudo-Epistole gregoriane: potrebbero essere queste, invece, a non andare d’accordo
con quella.
L’Epistolario gregoriano potrebbe essere utilizzato per la storia del
monachesimo in Sicilia e in Italia Meridionale, ma solo quando cita nomi, toponimi,
episodi che trovano riscontro in altre fonti coeve; vale a dire: mai. E’
augurabile, pertanto, che di un monachesimo latino pre-normanno in Sicilia non
si parli più, oppure che tutta la questione sia relegata in una breve
nota di colore che si limiti a ricordare il contesto politico in cui nacquero
e si diffusero quelle che qualsiasi gazzettiere d’oggi liquiderebbe come
leggende metropolitane.
p. Antonio Scordino