REGHIERA
DEL UORE
a
preghiera di Gesù è la seguente: Κύριε Ιησού Χριστέ, Yιέ Θεού ελέησον με τον αμαρτωλό : Signore Gesù Cristo, Figlio
di Dio abbi pietà di me, peccatore.
In origine, la si diceva senza
la parola peccatore; questa è stata aggiunta più tardi alle altre parole
della preghiera. Tale parola esprime la coscienza e la confessione della caduta.
"Qualunque
cosa chiederete al Padre nel mio Nome",
dice ai suoi apostoli il Signore, "la
farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio. Se
mi chiederete qualche cosa nel mio Nome, io la farò"
(Gv 14.13-14). "In verità, in verità vi dico: se
chiederete qualche cosa al Padre nel mio Nome, egli ve la darà. Finora non
avete chiesto nulla nel mio Nome. Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena" (Gv 16.23-24).
“In nessun altro c'è salvezza;
non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto
il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati"' (At 4.7-12), “chiunque invocherà il
Nome del Signore sarà salvato" (Rm 10.13), nel Nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto
terra"
(Fil 2.8-10).
La
Preghiera del cuore, radicata nel Nuovo Testamento, viene
assunta da una «corrente» propria della spiritualità orientale antica che
è stata chiamata esicasmo. Il nome proviene dal greco ησυχία: hesychìa che significa:
calma, pace, tranquillità, assenza di preoccupazione.
L'esicasmo può essere
definito come un sistema spirituale di orientamento
essenzialmente contemplativo che ricerca la perfezione (deificazione) dell'uomo
nella unione con Dio tramite la preghiera incessante.
In
un documento del monastero di Iviron
del monte Athos, si legge questa definizione: «L'esicasta è
colui che parla a Dio solo e lo prega senza posa».
La
storia dell'esicasmo inizia con i monaci del deserto d'Egitto e di Gaza.
«A noi, piccoli e deboli, non ci resta altro da fare
che rifugiarci nel Nome di Gesù»,
dice uno di loro. Si afferma poi al monastero del Sinai, con san Giovan'm
Climaco.
In
genere esichia significa quiete, ma può anche voler
esprimere la pace profonda del cuore.
Nella letteratura monastica esichia rivela almeno due significati. Prima di tutto tranquillità, quiete e pace come stato d'animo, e
condizione stabile del cuore necessaria per la contemplazione. Significa ancora
distacco dal mondo nella doppia accezione di solitudine e silenzio.
L'esichia espressa nella pace, quiete, solitudine
e silenzio interiore, che viene raggiunta attraverso
la solitudine e il silenzio esteriore, si presenta tuttavia come un mezzo
eccellente per raggiungere il fine dell'unione con Dio nella contemplazione,
attraverso la preghiera o l'orazione ininterrotta.
Questa è un mezzo éccellente, un cammino di amore
autentico, vissuto nel silenzio e nella solitudine al fine di raggiungere
la preghiera vera e l'autentica contemplazione.
L'esichia in definitiva
è l'atteggiamento di chi nel proprio cuore si pone alla presenza di Dio.
Per cogliere i vari aspetti dell'esichia che il
monaco è chiamato ad esprimere possiamo riferirci alla vita di padre Arsenio,
il padre degli anacoreti.
Ecco come viene raccontata la sua vocazione all'esichia:
«Abbà Arsenio, quando ancora abitava nel palazzo
imperiale, pregò Dio con queste parole: "Signore mostrami la strada
che conduce alla salvezza". E una voce si rivolse a lui e gli disse: "Arsenio fuggi gli uomini e sarai salvato".
Lo stesso, divenuto anacoreta, nella sua condizione di eremita, di nuovo rivolse a Dio la stessa preghiera, e intese
una voce che gli disse: "Arsenio fuggi (il mondo), resta in silenzio
e riposa nella pace (esichia). È da queste
radici che nasce la possibilità di non peccare"»
(Arsenio 1.2).
Quest'ultima frase è all'inizio della vocazione
degli esicasti: «Fuge,
Tace, Quiesce: Fuggi, Taci, Riposa». La fuga dal mondo, il silenzio
e la pace interiore sono i tre atteggiamenti che danno forma allo stato di
vita del monaco, in particolare dell' anacoreta.
Fuge: esichia
come solitudine
Il
monaco autentico è chiamato a vivere prima di tutto
la solitudine. I Padri del deserto, sottolineano
con grande forza la fuga dagli uomini, la necessità cioè di ridurre al minimo
il contatto con essi. Si racconta in proposito: «Il beato arcivescovo Teofilo,
si recò una volta dal padre Arsenio in compagnia di un magistrato. Chiese
all'anziano di udire da lui una parola. Dopo un attimo di silenzio,
egli rispose loro: "E se ve la dico, la osserverete?". Promisero
di farlo. Disse loro l'anziano: "Dovunque sappiate che ci sia Arsenio,
non avvicinatevi"» (Àrsenio 7).
«Il padre Marco disse al padre Arsenio: "Perché ci sfuggi?". L'anziano
gli dice: "Dio sa che vi amo. Ma non posso essere
contemporaneamente con Dio e con gli uomini. Le schiere celesti che sono migliaia
hanno un'unica volontà, mentre gli uomini ne hanno tante. Perciò non posso lasciare Dio per venire dagli uomini"»
(Arsenio 13).
Alcuni contatti discreti con
il mondo possono essere anche vantaggiosi. Tuttavia solo per quei monaci
che hanno acquisito una grande maturità spirituale
e ai quali è comandato espressamente da Dio. Ma per
lo più il monaco è invitato a garantirsi una zona di calma, di silenzio, di
solitudine per ricevere la formazione da parte di Dio e abituarsi alla sua
silenziosa presenza.
L'esichia
come solitudine non vuol dire solo fuga dal mondo, ma indica pure una certa
stabilità in un determinato luogo solitario. Questa esigenza è espressa con
un famosa formula che poi è divenuta tradizionale: «Rimani nella tua cella, resta nel tuo eremo, ed essa ti insegnerà ogni cosa» (Mosè 6). «Insegnerà ogni cosa» è la stessa frase che troviamo in bocca a Gesù
quando preannunzia la venuta dello Spirito (Gv 14,26).
Rimanere nella solitudine della cella è allora apertura allo Spirito, al suo
fuoco e alla sua luce. L'abbà Macario l'Egiziano lega insieme la fuga dagli uomini e il restare
in cella: «Il padre Isaia chiese al padre Macario: "Dinnni una parola". E l'anziano gli dice: Fuggi
gli uomini! ,. E il padre Isaia a lui: "Che cosa,significa
fuggire gli uomini?". L'anziano gli disse: "Significa rimanere nella tua cella e piangere i tuoi peccati"
» (Macario E. 27).
E rivolgendosi all'abbà
Aio gli dirà: «Fuggi gli uomini, rimani nella tua cella a piangere i tuoi
peccati, e non amare la conversazione con gli uomini. E
ti salverai» (Macario E. 41).
Infatti la celia è l'ambiente per l'esichia, dirà lo stesso Antonio il grande: «Come i pesci muoiono se restano sulla terra
secca, così i monaci che si attardano fuori della cella o si trattengono con
la gente, perdono la forza necessaria all'esichia.
Come dunque il pesce al mare così noi dobbiamo correre alla cella; perché
non accada che, attardandoci fuori, dimentichiamo di custodire il
di dentro» (Antonio 10).
La solitudine può esprimersi pure in
un atteggiamento di continuo pellegrinaggio da un luogo ad un altro. Ogni
luogo infatti deve essere estraneo al monaco. Una tale estraneità - xenitèia
- indica una sorta di esilio volontario lontano dalle cose mondane. Afferma
san Nilo: «Il primo dei grandi combattimenti consiste nella xenitèia,
cioè nell'emigrare solo spogliandosi come un
atleta, ,,della propia patria, della propria razza,
dei propri beni». Il passare da un luogo ad un altro è imitare il cammino
di Gesù, come dimostra la storiella seguente:
«Del padre Agatone raccontavano che
impiegò molto tempo assieme ai suoi discepoli per costruire una cella. Quando l'ebbero finita, cominciarono ad abitarvi, ma già dalla
prima settimana vide qualcosa che gli pareva non giovasse e disse ai suoi
discepoli: "Alzatevi andiamo via di qui" (Gv
1,3l). Ne furono molto turbati e dissero: "Se proprio avevi l'intenzione
di andartène perché abbiamo tanto faticato per costruire la cella? La gente
si scandalizzerà di nuovo e dirà: Ecco, questi instabili, che se ne vanno
di nuovo". Vedendoli così avviliti, egli disse loro:
"Se anche alcuni si scandalizzeranno, altri, a loro volta, saranno edificati
e diranno: Beati costoro che per amore di Dio se ne sono andati disprezzando
tutto. Comunque chi vuole venire venga. Io
adesso vado. Allora si gettarono a terra, pregando che permettesse loro
di partire con lui» (Agatone 6; cf. anche
Amoe 5).
Questi
ultimi apoftegmi ci permettono di sottolineare l'aspetto
itinerante della esichia. Certamente la cella è
importante; ma non si può rimanere in essa con lo
spirito del proprietario. Il monaco sa di essere
straniero su questa terra e così abbahdona tutto
ciò che può distoglierlo dal servizio di Dio, vivendo nel nascondimento e
nell'attesa, sperando ardentemente nel ritorno del Signore glorioso. La solitudine
esteriore è certamente importante, ma più necessaria è la solitudine del cuore.
Qui si gioca l'autentica esichia, ovvero l'eremitismo
o l'anacoresi interiore, il monachesimo del
del cuore, il solo che può condurre alla
Preghiera di Gesù.
Tace: esichia
come silenzio
Nella solitudine il monaco è chiamato
a vivere il silenzio. La voce che Arsenio aveva udita si era
infatti espressa nei termini che sappiamo: fuge,
tace, quiesce.
Il
silenzio che esprimono i Padri del deserto, come giustamente è stato detto,
«è un silenzio dai mille nomi e dai mille volti dove ogni cosa è al suo posto,
è un silenzio prezioso per l'anima, un silenzio che sta dalla parte della
trascendenza. Dai vari apoftegmi emerge che il silenzio dei Padri del deserto
è il silenzio dell'umiltà, del tacere di se stessi, è il silenzio che toglie
le parole all'egoismo, alla superbia, all'amor proprio, è il silenzio di chi
si fa pellegrino e straniero, ma è anche il silenzio dell'amore, il silenzio
di chi non giudica il prossimo, di chi non parla o sparla degli altri, infine
è il silenzio della fede, di chi si fida del Totalmente Altro, di chi si è
messo completamente nelle sue mani».
Consideriamo alcuni particolari di questo
grande silenzio.
La preghiera perpetua è il
problema pratico fondamentale che viene dibattuto
molto nei primi secoli cristiani. I monaci avevano il dovere di realizzare
questo comando della Scrittura, più di tutti gli altri cristiani. Il loro
amore per il silenzio è senz'altro la forma, il clima, la dialettica stessa
della preghiera ininterrotta
Il silenzio è come una cella e una sorta di eremo
portatile da cui l'uomo di preghiera non uscirà mai anche quando per motivi
di carità, dovrà andarsene dalla sua cella visibile. Afferma il grande Poemen «Se tu sarai nel silenzio tu otterrai il riposo in qualsiasi
luogo abiterai» (Poemen 84).
Custodire il silenzio, quando si presenta l'occasione di parlare, è la vera
fuga dagli uomini: «Dominare la propria
lingua ecco la vera estraneità - xenitèia -»,
afferma abbà Titoes;(veD 84).
«Il padre Giovanni era fervente
nello Spirito. Venne un tale a visitarlo e lodò il suo lavoro: stava lavorando
alla corda, e rimase in silenzio. Tentò una seconda volta di farlo parlare,
ma egli continuava a tacere. La terza volta disse al visitatore: "Da
quando sei venuto qui, hai allontanato da me Dio"»
(Giovanni Nano 32).
«A Scete il grande abbà
Macario, quando si scioglieva l'assemblea, diceva: "Fuggite, fratelli".
Uno degli anziani gli chiese: "Dove possiamo fuggire di più che in
questo deserto?" Egli poneva il dito sulla bocca dicendo: "Questo
fuggite!" e entrato nella sua cella, chiudeva
la porta e si sedeva (si poneva in esichia)» (Macario E. 16).
Il silenzio a cui invitano i Padri del deserto
è anche testimonianza. Secondo la loro esperienza è necessario parlare
con le opere e non con la lingua. E il proprio cammino
di fede che opera, le parole sono spesso inutili.
«Un fratello chiese al padre Sisoes:
"Dimmi una parola". Gli disse: "Perché mi costringi
a parlare inutilmente? Ecco, fa' ciò che vedi"» (Sisoes
45).
«Un fratello chiese al padre Poemen: "Dei
fratelli vivono con me; vuoi che dia loro ordini?". "No -
gli dice l'anziano - fa' il tuo lavoro tu, prima di tutto; e se vogliono
vivere penseranno a se stessi". Il fratello gli dice: "Ma
sono proprio loro, padre, a volere che io dia loro ordini". Dice
a lui l'anziano: "No! Diventa per loro un modello, non un legislatore"»
(Poemen 174).
L'abate Isaia disse ancora: «Non deve essere la tua
lingua a parlare, ma le tue opere, e le tue parole siano
più umili delle tue opere. Non pensare senza intelligenza, non insegnare
senza umiltà, affinché la terra possa ricevere
il tuo seme».
I frutti del silenzio secondo i Padri del deserto sono molteplici. Il silenzio
dona la quiete (Poemen 84); genera la castità
(Detti V,25); è di aiuto contro gli empi (Detti
XI, 7); conserva l'animo nella pace (Matoes
11); il silenzio è umiltà (Detti XV,76); il silenzio aiuta a non
giudicare il prossimo, a non condannare nessuno, è rimedio contro la maldicenza;
è scuola di tolleranza e benevolenza verso tutti (Ammone 8).
Tuttavia un tale silenzio richiede molto
coraggio. Afferma
Poemen: «La prima volta fuggi, la seconda fuggi, la terza diventa una spada» (Poemen
140).
Quiesce: rimani nella pace interiore
Solitudine e silenzio praticati concretamente, rappresentano
dunque per i Padri del deserto, il momento fondamentale dell'esichia del corpo, dell'esichia
esteriore. Una quiete che seppure esterna è fondamentale. Infatti,
come afferma Macario: «Nessuno può avere l'esichia
dell'anima, se non si è assicurato dapprima quella del corpo».
Certamente però è 1' esichia
interiore il cardine essenziale della spiritualità monastica orientale. Dalla
solitudine e dall'assenza di parole il monaco è chiamato a passare al silenzio
profondo attivo e creativo. E questo è tutt'altro che quietismo. Al contrario è «ricerca della sola
quiete possibile, che è la pace di Cristo, la pace esultante di Dio nel fondo
del cuore».
Il monaco si consacra per vocazione a perseguire unicamente l'unione con
Dio, attraverso la preghiera, che a sua volta presuppone il totale distacco,
la perfetta purificazione, la rinuncia a tutto ciò che potrebbe rallentare
il suo cammino spirituale.
I Padri del deserto «hanno spesso ricordato che Gesù, anche dopo il primo ritiro nel deserto, ha spesse volte
cercato la solitudine. La solitudine pone dunque il monaco al centro stesso
del mistero della redenzione, in una configurazione al Cristo che tocca l'apice
più doloroso, ma anche il più fecondo della sua opera di salvezza. In, questo
modo il legame tra solitudine e preghiera prolungata, estasi e sofferenza
viene solidamente affermato»
La ricerca cristiana della solitudine, del silenzio e
della pace interiore potrebbe anche apparire una sofisticata
spinta egoistica. Ma non è così. «Consacrare interamente
la propria vita terrena perché Dio sia tutto in tutte le cose è precisamente l'opposto dell'egoismo. E partecipare nel
modo più generoso possibile, dopo il martirio, alla grande
opera di Dio amore» .